La voce del poeta: Giovanna Rosadini
Tenebra come dono
Sulle orme di Giacobbe, per la poetessa genovese (la cui ultima raccolta è ispirata alla Torah) il percorso che porta alla luce passa necessariamente per l’accettazione della ferita, per il confronto vero con la paura… Un’esperienza che si fa canto
«Dare un corpo alle parole, toglierle / dalla notte impalpabile e affamata / d’aria, che abbiano peso, che sudino / come organismi maturi». Questi versi tratti dall’ultima raccolta Il numero completo dei giorni (160 pagine, 12 euro), edita da Aragno nel 2014, sembrano racchiudere il nucleo stesso della poetica di Giovanna Rosadini. Si tratta di un libro che rimanda a una sorta di preghiera laica ispirata al testo della Torah. Il vissuto, le piccole gioie condivise, diventano allora l’approdo più significativo: «Saremo noi, se ci sapremo riconoscere, la terra promessa».
Il dettato della poetessa genovese, trapiantata a Milano, si segnala per una freschezza di tono e una naturalezza di modi espresse attraverso rime che cadono in forma anomala all’interno e non in chiusura del verso. La Rosadini si è imposta all’attenzione del pubblico e della critica più attenti dopo la pubblicazione di Unità di risveglio (2010) in cui raccontava il faticoso ritorno alla vita dopo essere stata in coma, seguito alla silloge d’esordio Il sistema limbico (2008).
Può raccontarci le dolorose circostanze da cui è nata la raccolta Unità di risveglio?
Questo libro è il racconto in versi della mia esperienza di coma e di risveglio, di come io sia caduta in un abisso scuro e di come ne sia uscita, del mio ritorno alla vita profondamente mutata nel corpo e nello spirito, e di tutte le difficoltà che questo ha comportato. Quando è avvenuto l’incidente che mi ha causato il coma mi sentivo nel momento di massima pienezza vitale: avevo due figli ancora bambini e una bella famiglia, un lavoro che mi piaceva e mi sentivo nel momento del massimo vigore fisico e intellettuale, non più giovanissima ma finalmente consapevole delle mie potenzialità e dei miei talenti… Tornare alla vita è stata una grande fatica ma anche una grande gioia, una grande ansia legata alle cose da recuperare, e dal fatto di sentirsi continuamente sotto esame per questo, ma anche la felicità di ritrovarsi coi propri cari, e un senso di gratitudine per questa seconda possibilità che mi è stata data. Il risveglio, in questo senso, è paragonabile a una seconda nascita, a una rinascita. Ogni nuovo giorno, da allora, è un dono che va apprezzato sino in fondo, una sfida e una scoperta. Perciò, nonostante la drammaticità del tema, credo che questo libro sia un inno alla vita, una dichiarazione d’amore per la vita e tutto quello che può darci, che tendiamo a dare per scontato finché non succede qualcosa che ci apre gli occhi.
Può parlarci della sua ultima raccolta, Il numero completo dei giorni, che si ispira alla Torah?
Mi interessava avvicinarmi, umilmente e senza alcun intento esegetico, in modo libero e personale, a uno dei testi fondativi della nostra società e cultura, di matrice notoriamente giudaico-cristiana. Dunque, un approccio squisitamente intertestuale: ciò che ho fatto è stato rileggere, nell’arco di un anno e, appunto, secondo la scansione delle porzioni di testo lette di Sabato in sinagoga (le parashot), questo testo antichissimo, vero e proprio giacimento di archetipi e temi che hanno innervato la nostra civiltà, formidabile repertorio di figure, personaggi, storie che hanno ispirato secoli e secoli di arti e letteratura occidentali. Ho trovato in questo testo, al tempo stesso semplice e straordinariamente ricco e stratificato, leggibile a più livelli, una potente fonte di ispirazione. Ho avvicinato le sue pagine con lo sguardo di una persona dei nostri giorni, senza lasciarmi intimorire dall’aura di sacralità che ne emana e rifuggendo ogni letteralità, cogliendo di volta in volta ciò che più mi colpiva: un’immagine, un personaggio, un concetto.
Lei ha lavorato come editor fino al 2004 per Einaudi.
Ho cominciato come redattrice in quella che era, allora, la redazione di Letteratura, occupandomi un po’ di tutto, autori italiani e stranieri, lavoro redazionale, editing, revisione di traduzioni… Poi, piano piano, mi è stato dato modo di occuparmi sempre più del mio principale campo di interesse, la poesia, fino a quando non ho cominciato a occuparmi esclusivamente della Collana bianca, a seguirne gli autori, a coadiuvare il responsabile dell’area letteraria, Mauro Bersani, nella valutazione e nella scelta dei nuovi talenti.
Lei ha curato, per la collana “bianca” di Einaudi, Clinica dell’abbandono di Alda Merini. È stata una scelta fortuita o è derivata da un particolare amore per l’opera di questa poetessa?
Alda Merini era, a metà degli anni Novanta, quando cominciai a lavorare nella redazione einaudiana, uno degli autori di punta della Collezione di Poesia, sicuramente il best-seller della collana. Ma aveva ormai una certa età, era sola e vulnerabile, e tendeva a dissipare il suo talento accettando di pubblicare, senza un preventivo controllo critico sulla qualità dei testi, con chiunque le manifestasse interesse e simpatia umana. Ormai non scriveva quasi più su carta, preferendo dettare i suoi testi alle persone che le ispiravano fiducia, o che la blandivano, o di cui si invaghiva. Il lavoro che facemmo io e Ambrogio Borsani fu proprio quello di selezionare i testi più significativi e far prendere loro una forma-libro, riordinandoli in una raccolta dopo averli sottoposti a editing. Se lavorare con Alda Merini fu, all’inizio, un aspetto della mia attività professionale, questa si rivelò anche l’occasione per conoscere meglio la donna, la poetessa e la sua opera, arrivando ad apprezzare pienamente la geniale semplicità della sua scrittura.
A cosa sta lavorando attualmente?
Da qualche mese sto lavorando alla mia quarta raccolta poetica, il cui titolo sarà Fioriture capovolte. Si tratta di una sorta di bilancio della mezza età, fra ricordi (una sezione è dedicata agli anni universitari veneziani, coincisi storicamente con gli anni Ottanta del secolo scorso, anni di grande ottimismo e spensieratezza che hanno conosciuto la fine della Guerra fredda e la caduta del Muro di Berlino e, sul piano personale, il periodo formativo più importante della mia vita), momenti critici (un’altra sezione, Lo spazio bianco, raccoglierà i testi che parlano del rovescio dell’esistenza, di dolore, difficoltà e depressione) e gioie e regali inaspettati della vita, che a ogni età offre sorprese così come la possibilità di apprezzare e mettere a frutto quello che abbiamo fatto e chi siamo diventati… e godere degli affetti e relazioni che hanno dato senso e consistenza a ciò che siamo.
Quali sono i suoi autori di riferimento?
Partendo dalla tradizione italiana, la scuola toscana e il prendere forma di un volgare “alto” nella versificazione italiana attraverso il tema della sublimazione del sentimento amoroso; poi Leopardi, il suo aver tradotto in una classica compostezza, nelle limpide immagini del suo vissuto recanatese, un sentimento del mondo complesso e disincantato. Infine, la lezione di sensibilità novecentesca veicolata dalla poesia di Montale. Lui è il poeta del secolo passato con cui trovo più corrispondenza, pur avendo amato l’asciutta sobrietà di Sereni e rimpiangendo la lezione di stile di Raboni, che ho avuto il privilegio di conoscere e frequentare. Fra i contemporanei, Milo De Angelis è stato un maestro, col suo esistenzialismo urbano e le feconde slogature della sua frase poetica; ho molto amato, anche, il primo Magrelli, dallo sguardo lucido e acuto. Poi ci sono le fratellanze di penna di oggi, molte e con cui ho scambi stimolanti e significativi. Ho molto amato, ed è stata particolarmente feconda, per la mia formazione, la poesia americana contemporanea, in particolare quella femminile, da Sylvia Plath e Anne Sexton fino ad Anne Carson, Adrienne Rich e, soprattutto, Sharon Olds, così centrata sui dati dell’esperienza, e in questo senso paradigmatica nel considerare il dato quotidiano e i sentimenti individuali. Ma penso anche alla visionarietà di un autore irregolare come Dennis Nurkse. Infine, la poesia ebraica e israeliana, tanto densa e stratificata, fitta di echi e richiami a una tradizione antichissima (biblica e non solo), e intensa nel suo coniugare Thànatos ed Eros, e nell’ininterrotto dialogo col sacro.
Può commentare la poesia inedita presentata?
Una delle cose che ho imparato dalla lunga (lunghissima, in realtà ancora in corso) terapia analitica iniziata dopo il risveglio dal coma è stata quella di non negare eventuali e, inevitabilmente, ricorrenti stati di malessere e disagio esistenziale. Invece di sprecare inutilmente energie nel tentativo di rimuovere o arginare le ragioni di una crisi, starci dentro, non avere paura della propria paura, confrontarcisi per capire che abbiamo in noi stessi gli strumenti per affrontarla… La tenebra, spesso, nasconde una grande ricchezza. E qui cito la lezione dell’episodio biblico della lotta di Giacobbe con l’angelo: affrontando l’angelo, cioè le proprie paure, zone d’ombra, debolezze, Giacobbe rinuncia al desiderio di sicurezza, torna in una notte primordiale, ma, accettando la sfida e confrontandosi col suo avversario, torna alla luce. Per guarire, bisogna accettare la propria ferita, solo questa consapevolezza ci consente di trovare le risorse per avere una vita buona e significativa.
***
Respiro nel respiro, ascolto la notte.
Ombre lunghe tendono abbracci,
invitano a proseguire oltre la siepe
sul confine dello sguardo. Accade,
ancora, di ritrovarsi nudi, esposti.
Restare allora nella notte, accogliere
la sua lusinga è un balsamo per chi
non lascia tempo alla paura, tenebra
è una parola che risolve e cura.
Giovanna Rosadini