Alle Scuderie del Quirinale di Roma
Modello arte Italia
Raffaello, Guido Reni, Tiziano, Tintoretto, Francesco Hayez: una mostra riunisce alcune delle opere rubate all'Italia da Napoleone e tornare indietro grazie all'intervento, all'epoca di Antonio Canova. Il progetto di un «Museo Universale»
Il primo impatto è con il bianco smagliante e il groviglio di corpi contorti del gruppo del Laocoonte. No, non l’originale rinvenuto dagli allievi di Raffaello nei grottoni in cui era sprofondata la Domus Aurea e poi trafugato da Napoleone: quello, dopo la restituzione strappata al Louvre da Antonio Canova, non si è più mosso dal Vaticano, dove tornò danneggiato perché durante il trasporto la cassa era caduta a terra. Ma la copia in gesso lucidato similmarmo fatta all’epoca per rimpiazzare il capolavoro ellenistico. Un calco che impone al visitatore un balzo mentale di oltre un secolo e una sorta d’approdo inatteso sulle sponde di Walter Benjamin e perché no di Andy Warhol. E a nostro avviso offre la chiave più adatta per giudicare e apprezzare la mostra «Il museo Universale», allestita fino al 12 marzo alle Scuderie del Quirinale.
Dimentichiamo per una volta i criteri con cui normalmente si recensisce un appuntamento come questo. La contabilità dei capolavori messi in vista: anche se certo fa evento vederli raccolti qui insieme, un’ottantina, provenienti da tante sedi diverse. La bilancia delle attese deluse: il manca questo o quest’altro. La bellezza delle opere esposte e la grandezza dei maestri che le hanno firmate: Raffaello, Guido Reni, Tiziano, Tintoretto. La disposizione nelle sale. I pregi e i difetti dell’illuminazione. E così via. Perché questa non è una patinata e un po’ muffosa carrellata antologica a tema come tante altre. E per essere davvero gustata richiede al visitatore lo stesso livello di complicità che si riserva ad un’istallazione concettuale, dove il progetto è più rilevante dei singoli lavori, il percorso conta più dell’opera. In questo caso, il tragitto è avvincente come la trama di un romanzo, denso di punti di vista, riflessioni che avvicinano all’attualità, impongono domande e dilemmi non molto diversi da quelli che oggi incalzano il pubblico dell’arte e non solo. Guerra e pace, giochi di potere e utopie, affari e partecipazione popolare, calcoli e bellezza: il crogiuolo da cui nascono l’idea moderna di museo come luogo delle memoria , delle radici, della durata ma anche le lacune, i dubbi, le forzature retoriche che oggi ne rimettono in discussione il senso e l’utilità.
Il tutto condensato in un paradossale andirivieni di cimeli che scandisce come un controcanto parallelo il fatale ventennio dell’epopea napoleonica, dai primi trionfi in battaglia alla sconfitta di Waterloo nel 1815 ,dalle parole d’ordine della rivoluzione francese alla restaurazione del Consiglio di Vienna. La discesa in Italia e le vittorie di Napoleone segnano il destino di un enorme quantità di opere d’arte, rastrellate grazie agli espropri di collezioni dinastiche e del patrimonio di enti religiosi, chiese, conventi e poi spedite in Francia. Il grosso destinato al Louvre, il resto ad altri luoghi d’esposizione in provincia. Almeno cinquecento tra tele, sculture, opere antiquarie traslocate Oltralpe. L’idea è quella di contribuire così a fondare una sorta di museo universale, che raccolga in ordine cronologico il meglio dell’arte europea, da quella antica a quella del Rinascimento e dei secoli successivi, nel presupposto che l’arte sia un valore civile, il migliore veicolo dei principi ideali della rivoluzione francese. Peccato che però quest’idea di museo venga poi teorizzata come privilegio esclusivo dei popoli liberi e liberati in nome della rivoluzione, giustificando ogni tipo di spoliazione ai danni di di chi si oppone o tenta di resistere a questa marcia verso un traguardo di utopico progresso , sempre più connotato e distorto dal potere assoluto e dispotico che Napoleone si assegna.
Con il crollo di Waterloo e il tentativo di ripristinare i vecchi ordini e i vecchi regimi sancito a Vienna, tutti i paesi depredati spediscono in Francia propri emissari con il compito di recuperare il recuperabile. Tra questi c’è anche tra i più attivi, certo il più autorevole, lo scultore Antonio Canova, commissario del Vaticano, che si prodiga come può per recuperare per via diplomatica il maltolto. E corona oltre ogni aspettativa l’impresa. Alla fine, una metà delle opere depredate torna comunque a casa. Un flusso di convogli su carri che tornano a valicare all’incontrario le Alpi, di spedizioni via mare. Quasi un miracolo che l’operazione sia andata in porto: senza finanziamenti pubblici, solo l’intercessione di singoli mecenati o di governi stranieri a coprire le spese, perché l’Europa della Restaurazione era un colabrodo di manovre , ottusità, malesseri e diffidenze reciproche peggiore di quella dell’euro.
Un miracolo che quelle opere d’arte sballottate su e giù, avanti e indietro, con sistemi di imballaggio e trasporto che oggi ci farebbero inorridire, siano scampate alla prova. Alcune, certo, con qualche danno. Come capitò appunto al Laocoonte. O alla pala di Tiziano che svettava nella cattedrale di Verona, lì poi è tornata e ora fa bella vista in mostra alla Scuderie: durante il viaggio di andata per mare verso la Francia finì stivata in un sottoponte che grondava acqua e l’umidità causò perdite e distacchi di colore, tanto che solo dopo mesi di restauro poté essere esposta a Parigi.
Ma il vero miracolo sono le tracce indelebili che questo via vai di icone imprime nelle coscienze dei popoli. In Francia, dove le opere restituite e quelle che il Louvre riuscì a incamerare innescano una rivoluzione di gusto che alimenterà la impetuosa scalata verso la modernità della grande pittura francese dell’Ottocento. La teatralità manierista dei Guido Reni, il senso del colore di Veronese, gli azzardati furori compositivi dei Tintoretto diventano bussole e modelli che preparano le geniali avventure romantiche di Gericault e Delacroix. È in Francia, su impulso di Denon, il conservatore de Louvre napoleonico, che si riaccende quella passione per i «primitivi italiani» che ha recuperato dall’oblio le pagine del trapasso dall’ultimo Medioevo al Rinascimento.
Ma ancora più evidenti e incisive sono le ripercussioni che avvengono in Italia dove il senso della perdita per le opere trafugate scatena un’attenzione e una passione del tutto nuove per quei quadri, quelle sculture che prima destavano scontate e trattenute emozioni e ora vengono accolte al rientro come bandiere d’identità. La gente ne accoglie il ritorno a casa con tripudi di folla e di devozione simili a quelli con cui oggi si festeggiano le squadre di calcio che hanno vinto un mondiale o una coppa dei Campioni. Facile immaginare la commozione con cui i Veneziani riabbracciano i leoni e i cavalli portati via dalla Basilica di San Marco: quelli erano già dei totem popolari. A far la differenza è che lo stesso trattamento venga riservato a gioielli di maestri locali che molta gente non sapeva neppure o aveva dimenticato di possedere. E che ora invece riscopre come proprio patrimonio e vuole poter omaggiare con la venerazione riservata ai santi tutelari in nuovi templi aperti a tutti, strappandoli per sempre ai saloni inaccessibili delle quadrerie nobiliari, al buio e spesso alla cattiva custodia dei luoghi di culto in cui erano confinati. Da questa spinta nascono e nasceranno i nuovi musei civici che oggi sono lo scrigno dell’arte italiana. A Ravenna, a Bologna, a Venezia, a Firenze. Persino in Vaticano che una clausola del trattato di Tolentino obbligava a mettere a disposizione della città i suoi tesori.
I musei come santuari delle radici e della memoria da creare e riorganizzare. E le opere d’arte come presagi e vessilli di un orgoglio nazionale che diventerà la molla del nostro Risorgimento. Un bel colpo d’ala la carrellata di busti dedicati ai grandi maestri dell’arte italiana che i musei capitolini hanno prestato per l’occasione: un regalo che Antonio Canova, rientrato dalla sua missione a Parigi, volle fare a imperituro ricordo delle eccellenze del nostro paese commissionando di tasca propria quei ritratti a scultori dell’epoca.
E non meno toccante quella bellissima tela di Francesco Hayez, una donna discinta, il volto rabbuiato, dipinta per evocare con una metafora cifrata la sua desolazione per il fallimento di quei moti di rivolta antiaustriaca, quelle leggendarie Cinque Giornate della Milano 1848, cui lui stesso partecipò.
Finisce così questa mostra. Da vedere, ma soprattutto da ascoltare, da leggere, da interrogare. Perché le opere d’arte alle pareti non sono che le illustrazioni di una storia che va rimontata pezzo a pezzo, soffermandosi su ognuna delle didascalie che ne illustrano la provenienza e le peripezie. Anche se le mode che oggi dominano la società dello spettacolo e della superficie ci scoraggiano a farlo.
Un’ultima nota. La mostra sigilla il trapasso della gestione delle Scuderie del Quirinale dal Campidoglio al ministero dei Beni culturali, che ha affidato la programmazione del cartellone alla società Ales, diretta da Mario De Simoni. Colpa del Comune in crisi da anni, che non ha saputo né voluto difendere questo prestigioso contenitore espositivo. Ma anche l’effetto di una politica di accentramento imposta dal ministro Dario Franceschini e avviata con la riconquista del Vittoriano e il rilancio della Quadriennale, affidata ad un manager del suo cerchio magico come Franco Bernabè. Mario De Simoni è convinto che questo trapasso porterà molti vantaggi: «Sfruttando la rete di musei statali – spiega – sarà più facile trattare prestiti e scambi di opere per costruire mostre di grande richiamo». Per ora è solo una promessa. Ma lo scenario desta comunque allarme. In un settore delicato come quello della cultura, il pluralismo in cabina di regia è una risorsa da non intaccare. Giusto? Sbagliato? Non sarebbe il caso di dibattere con più trasparenza sui pro e sui contro.