Un libro per Natale
Luci e ombre d’Islanda
Lo scrittore Jón Kalman Stefánsson alla ricerca del senso dell’esistenza tra vita e morte. In un piccolo paese dove tra estate e inverno il passo è breve, prende vita un romanzo corale animato da tanti piccoli personaggi, che tocca corde profonde al di là delle mode letterarie
Luce d’estate ed è subito notte è un romanzo dell’islandese Jon Kalman Stefánsson pubblicato da Iperborea nel 2014. È un libro che va letto, goduto pagina dopo pagina, immagine dopo immagine. Si può dire, come giustamente nota la postfatrice Silvia Cosimini, che è anche la traduttrice, a cui bisogna fare i complimenti perché ci ha permesso di godere appieno la lettura di questo bellissimo romanzo pur non conoscendo la lingua originale, che «Jón Kalman anticipa così la tendenza contemporanea della letteratura islandese, secondo la quale l’individuo e il proprio bagaglio di ricordi tornano a essere memoria di trattazione dopo il caos del postmodernismo». Evidentemente in Islanda gli scrittori oggi hanno qualcosa da dire, senza giocare con quelle alchimie, con quelle ricerche sperimentali che possono attribuirsi assai spesso più che a una reale ricerca del nuovo a semplice stanchezza, vecchiaia intellettuale, vuoto interiore o acquiescenza a modelli considerati imprescindibili da molti dei narratori di casa nostra.
Ecco allora la ricerca del senso della vita, già indicata dal titolo: la luce e l’ombra sono la vita e la morte, ed è un binomio che torna continuamente nel libro, che si svolge in un paese dove è tanto lunga l’ombra e tanto breve la luce, e proprio per questo più splendente, più gioiosa e vitale. Lo scrittore ci dice a un certo punto che gli agnelli vivono una sola estate «un’estate, un’unica breve estate piena di luce nelle loro vene, nient’altro, poi il proiettile frantuma la fronte sopra gli occhi, e noi rimaniamo qui ad aspettare l’inverno». L’estate e l’inverno, la luce e il buio, sono i due poli che indicano la vita e la morte: «Non importa quanto le scienze progrediscano rapidamente… non ci libereremo mai dalla paura del buio» e più avanti leggiamo: «Ne abbiamo ancora di strada da fare per vincere le tenebre – che siano dentro di noi, sotto di noi o fuori». E ancora: «È così breve il passo tra la vita e la morte, tra l’estate e l’inverno».
Anche nei paragoni, molto belli, distintivi di uno scrittore che ha cominciato con lo scrivere poesie e sempre è rimasto poeta in pectore, presi quasi sempre in prestito dal mondo della natura, torna assai spesso la contrapposizione luce-ombra: la terra bianca come ali d’angelo… l’inchiostro denso, come la notte che cala sul mondo… la mezza frase come una nube di pioggia in cima alla pagina… l’essenza che si allontana sempre più come l’arcobaleno… i capelli quasi incolore, che non di rado assomigliano al fieno bagnato… gli occhi marrone chiaro che ricordano la brughiera nella luce di un sole splendente.
È una scrittura poetica, questa di Stefánsson, con cui racconta storie semplici, un romanzo corale, dove i protagonisti sono piccoli personaggi – piccoli di fronte alla storia – di un piccolo paese dell’Islanda, dove si aspetta che arrivi tutto in camion dalla capitale, dai giornali ai vestiti al mangiare. Ma è proprio la loro vita, la bellezza della loro vita – perché la vita ha sempre una sua bellezza – a costituire il senso della vita. Stefánsson non ci espone certezze, ma ci conforta con la serenità delle proprie considerazioni, di una proposta convincente: «Parliamo, scriviamo, raccontiamo di piccole e grandi cose per cercare di capire, di arrivare a qualcosa, di afferrare l’essenza che però si allontana sempre più come l’arcobaleno. Nelle storie antiche si dice che l’uomo non possa guardare Dio, equivarrebbe alla morte, e senza dubbio vale lo stesso per quello che cerchiamo – la ricerca stessa è lo scopo, il risultato ce ne priverebbe. E ovviamente è la ricerca che ci insegna le parole per descrivere lo splendore delle stelle, il silenzio dei pesci, il sorriso e lo sconforto, la fine del mondo e la luce dell’estate».
L’unico modo per sopravvivere è essere ricordati, questo Stefansson lo ripete ossessivamente sempre, in questo come in tutti gli altri suoi libri, e la parola, il racconto, dunque l’arte, sono il tramite del ricordo: «Continuiamo ad aggiungere nuove storie, ci resta difficile metterci un punto, ma forse è anche perché chi racconta la vita ha la tendenza ad andare per le lunghe – tutto quello che facciamo è in un modo o nell’altro una lotta contro la morte». Ma c’è anche dell’altro, c’è la bellezza della vita, come quando Jakob e Eyglò vanno a fare il loro giro dell’Avvento e «la luce che emana il loro viaggio è così forte che anche Dio deve averla senz’altro notata e ogni volta che partono si sistema nella cuccetta dietro i sedili. Tira la tendina e si rilassa dalle tribolazioni del mondo, dalla logorrea eterna degli angeli […] E il chiarore dei monti e la strada e le nubi e i fossati e le case e i fiumi e loro due sono così belli». «Che importanza può avere il rumore del mondo, l’ascesa o il tramonto di una cultura, il caso o il vuoto, se uno non ha labbra da baciare, seni da accarezzare, un respiro che riempie le orecchie?».
Il messaggio del romanzo è proprio questo. E io credo che un messaggio ci voglia essere, perché, come ho già detto, questo è un libro che scava nel profondo, dell’autore e dunque del lettore, un libro in cui l’autore cerca lui stesso qualcosa per sé, una qualche risposta, al di là delle vendite e dell’immagine, al di là delle mode letterarie.