Alberto Fraccacreta
L'elzeviro secco

Leader in cerca d’autore

La crisi italiana spiegata attraverso il teatro. Partiti da Pirandello, siamo sfociati nel pieno dell'Assurdo. A questo punto, forse, per i nostri politici servirebbe una bella lezione di Commedia dell'Arte...

L’attore protagonista ha creduto, sbagliando, di poter vincere da solo, e adesso gli altri interpreti di questo dramma non più comico ritengono che, rimuovendo il responsabile dalla scena, ci sia la possibilità, o addirittura la certezza, che lo spettacolo prosegua senza falle. È, questo, un copione che conosciamo a memoria fino all’ultima scena, ma disgraziatamente qualcuno ci ha anche suggerito il finale: caos. Un caos fatto di troppi leader in cerca d’autore. Il primo attore è il premier, lo spettacolo è il futuro dell’Italia. L’autore, purtroppo, non è Pirandello. Purtroppo perché dei maestri dell’assurdo fu forse latentemente il capostipite, con la sua poetica esistenzialmente feroce, che smorza il raggio d’azione e solleva questioni filosofiche da far impallidire servi e padroni sino a renderli immobili, inani; la critica storica potrebbe obiettare, ma è tuttavia dimostrato che il drammaturgo siciliano ebbe un raro talento per il metateatro, tanto da reinventarlo, mentre qui si parla di fantapolitica e il passo tra i due appare, tutto sommato, breve. La fantapolitica storpia la realtà: fa il gran teatro del mondo; il metateatro pirandelliano storpia il teatro: fa la gran politica del mondo del teatro. Quando è così semplice mutare l’ordine degli addendi, è chiaro che i termini in questione non sono così dissimili. Solo il risultato cambia.

In uno scenario variegato e complesso, dopo un legittimo rifiuto e una ancor più legittima paura di schianto tra un’Europa che morde il collo e l’instabilità che ritorna, severa e sovrana, a schiarire l’ugola del Belpaese, la girandola dei sei personaggi (inutile elencarli) ritorna. Ma adesso, perdonate l’ardire, bisogna cambiare linguaggio teatrale.

In Commedia dell’Arte, espressione artistica completamente italiana, un attore in scena non ha nemmeno un secondo per recitare da solo. Anche nei monologhi – pensati come parte integrante di un congegno a orologeria – prevale l’idea di collettività teatrale: l’altro è sulla scena per essere valorizzato e per valorizzare, non per essere nascosto e nascondere. Il bello è che il pubblico lo capisce immediatamente e castiga l’eventuale egolatra. La scena funziona solo quando ognuno degli attori, dal protagonista alla semplice comparsa, “entra nel ritmo” della partitura scenica. Non si può sgarrare perché, appunto, il pubblico è esigente sul profilo etico, più che su quello estetico. O forse il profilo estetico è ritenuto l’altra faccia del profilo etico. Il momento della valorizzazione dell’altro diventa il luogo in cui la gloria del proprio ruolo è più alta, perché lo scambio serrato di battute supera i limiti della credibilità per diventare pura coralità, quel meraviglioso modo d’essere che il pubblico, proprio perché non è capace di ripetere nella vita quotidiana, lo ammira estasiato nell’opera d’arte. La coralità risveglia il desiderio di giustizia, o meglio: il desiderio di giustizia come bellezza. Non è importante cosa si dica sulla scena e che significato abbia la commedia: importante è che ci sia coralità, che gli attori sappiano recitare all’unisono, che l’umanità dia l’impressione di essere, almeno una volta, perfettamente coesa sino a rappresentare le membra vive di un respiro più grande, di un progetto più originario. Se l’umanità è corale, la commedia non può che correre verso un lieto fine. Si può dire lo stesso dell’Italia? Il Paese più bello e più ferito del mondo. Il Paese che, se soltanto per un giorno nella sua storia si dimostrasse coeso, libero, unico, all’unisono, saprebbe risvegliare tutta la creatività e la dignità del gran teatro del mondo.

Oggi cosa rimane? Nazione in panne, mancanza di alternative. E, soprattutto, totale assenza di cooperazione da tutte le parti. Ecco perché siamo al teatro dell’assurdo: non c’è dialogo. Si dice spesso: non c’è azione. Ma azione senza dialogo che senso ha? Gli attori non sanno apprezzarsi e valorizzarsi. Adottano l’insopportabile retorica della solitudine, la beckettiana morsa della luce che muore, il pirandelliano estraniamento di ogni componente umana. Quel gelo e quella lontananza da noi stessi che questi autori fenomenali hanno saputo esprimere per additare una possibile soluzione al male. Quando capiremo che l’aiuto reciproco amplifica la forza? È necessario altro strappo? Altre cadute e più acuto risorgere? Altre, disastrose linee di governo e di opposizione? Forse ci vuole soltanto un corso di Commedia dell’Arte per i politici.

E per noi.

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