Every beat of my heart, la poesia
L’arroganza di Fetonte
Il poeta è incantato dal bambino, ne cerca lo stupore, la meraviglia. Diffida dell’adolescente, né bambino né uomo. Così è il figlio del Sole descritto da Ovidio nel momento della sua caduta che provoca sciagura al mondo. Molto diversa la sua incoscienza da quella di Icaro…
Fetonte è figlio del Sole, ma nel mondo delle divinità greche e poi romane le paternità sono molteplici, e incerte. Gli dei sono attivissimi, impregnati di passioni ardenti e fuggevoli… Così, nel caso di Fetonte, alcuni negano che il Sole sia davvero suo padre. Allora, per dimostrare chi è, il ragazzo pretende che il dio della luce infocante gli presti il suo cocchio che ogni giorno, all’alba, esce dalla notte celeste per condurre la luce, il calore, all’atmosfera, alla troposfera, alla terra. Il padre non vuole: nessuno che non sia lui può guidare quel carro. Nessuno sa portare la luce che illumina, ma che mal condotta può incendiare il mondo. Ma Fetonte è un giovane, ardito, incosciente: come Icaro, che incontriamo anche nello stesso, magico libro di Ovidio, vuole volare. I cavalli alati non gli obbediscono. Non tiene il timone. La via celeste è percorsa da un cocchio impazzito, che si sfracella, la terra in fiamme. Incendi, devastazioni, prosciugamento delle acque. Fetonte aveva l’attenuante dell’innocenza, della gioventù: ma la spavalderia e l’arroganza di un piccolo-non-ancora -uomo che non accetta di crescere, e maturare, bruciano il pianeta. Le foreste. Prosciugano le acque.
I poeti sanno queste cose, e le narrano da millenni. Il poeta è incantato dal bambino, ne cerca lo stupore, la meraviglia. Diffida dell’adolescente, né bambino né uomo, né carne né pesce. Deve sgobbare, apprendere, farsi uomo. La poesia, e il suo fratello teatro, non sono evasioni sentimentali. Sono la traduzione di drammi cosmici. L’asse del mondo si è sghembato, afferma Amleto, perché l’ordine umano è stato stravolto. È necessaria una tempesta magica, sempre con Billy, per riportare al mondo l’armonia che la malvagità ha spezzato. Noi qui vediamo solo le conseguenze di un desiderio incontrollato: Fetonte è più colpevole di Icaro, che non resiste al volo e sale fino ad avvicinarsi al sole che scioglierà la cera delle ali incollate. No, Fetonte vuole guidare il carro del Sole per dimostrare che è figlio del Sole, che è divino. Non è amore del cielo e del volo che lo anima e guida. È superbia da adolescente, come gli adolescenti che protetti dai genitori accusano gli insegnanti colpevoli di non capirli, e, addirittura, rimproverarli, cercando di orientarli al viaggio sulla terra, lasciando a chi ne è all’altezza quello nel cielo.
Questo adolescente, e il suo padre cedevole per senso di colpa, che rinuncia al suo dovere di padre sentendosi un cattivo padre, mandano il mondo in rovina. Sarà la Terra, che è una donna, a recuperare, a salvare il pianeta, a riportare la vita. Ma questa è un’altra storia del magico libro di Ovidio.
Con l’agile corpo Fetonte occupa il cocchio volante,
e vi si rizza godendo a maneggiare le briglie agognate
e ringrazia il padre contrariato.
Intanto Piroo, Edto ed Eoo, e, quarto, Flegetonte
i cavalli alati del Sole riempiono l’aria di nitriti fiammanti
e percuotono le barriere con gli zoccoli
e quando Teti ignara del destino del nipote
tolse schiudendo lo spazio del cielo infinito
i cavalli si gettarono sul cammino nel vuoto
squarciando con le zampe le accorrenti nuvole,
e alzatisi spinti dal moto alato doppiarono gli Euri
che dalle stesse regioni spiravano.
Ma il carico era leggero e non tale
Che i cavalli del Sole lo riconoscessero,
e il giogo non subiva l’usuale stretta.
Come le navi per mancanza di carico nella pancia sbandano,
e troppo leggere oscillano in mare senza imboccare la rotta,
così il cocchio privo del solito peso balzava nell’aria
e presto come se fosse vuoto, si squassa…
Come avvertono lo sbandamento, lo sfascio
i quattro cavalli aggiogati si scatenano,
abbandonando la pista sempre percorsa
e cambiando ordine di corsa.
Fetonte allora afferra il timone,
senza sapere dove piegare le briglie a cui è estraneo,
né dove sia la via, né come, se mai lo potesse,
riuscire a imporre dominio sui cavalli.
Allora per la prima volta le gelide stelle dell’Orsa
si intiepidirono ai raggi solari e invano cercarono
di immergersi nel mare a loro vietato,
e il Serpente, confinante coi ghiacci del polo,
inerte fino a quell’attimo e innocuo a causa del gelo,
si riscaldò e incalorito si accese di nuova rabbia.
E anche tu, Boote, dicono fuggisti sconvolto,
per quanto lento e trattenuto dal tuo carro.
Ma quando il povero Fetonte dal culmine dell’etere
guardò giù le terre, distese ora laggiù e in basso,
impallidì e la paura gli fece tremare i ginocchi,
e anche in quello splendore abbagliante
le ombre gli coprirono gli occhi.
Ora vorrebbe non aver toccato i cavalli,
si pente di avere appreso la sua origine
e delle sue suppliche coronate dal successo,
vorrebbe ora essere figlio di Merope.
Ma le raffiche di Borea lo trascinano in basso
come un veliero il cui pilota ha mollato le redini
e lo affida al i voti e al volere divino. Che fare?
Molto alle spalle lo spazio di cielo percorso
Ma smisurato quello davanti agli occhi,
nella sua mente misura l’uno e l’altro,
ora spia l’occidente precluso dal fato,
ora si volge a guardare a oriente:
attonito non sapendo che fare,
non rallenta la corsa né tende i freni,
nemmeno i nomi dei cavalli conosce.
E ora scorge, trepidando in varie zone del cielo
apparizioni mirabili e animali mostruosi.
Vi è un punto dove lo Scorpione incurva le chele
in duplice arco e con la coda e le branche piegate
nel vuoto tra due costellazioni distende il corpo.
Quando il ragazzo lo vide minacciare ferite,
con la cuspide a uncino e il corpo asperso di veleno,
gelato dal terrore perse il senno e le briglie,
e quando queste si posarono afflosciate in groppa ai cavalli,
questi uscirono di pista senza freni irrompendo
entro gli spazi di una plaga ignota,
correndo senza comando che non fosse la loro foga stessa,
si avventarono alle stelle fissate nella volta dell’etere,
trascinarono il cocchio per tratti inaccessibili,
e s’ impennarono, verso il punto più alto, ora in declivio
e per tratti precipitarono piombando
in uno spazio troppo vicino alla Terra.
Ovidio
(Dalle Metamorfosi, libro II,150-207, traduzione di Roberto Mussapi)