Angela Di Maso
Ritratto d'artista

Falegnameria teatrale

Francesco Saponaro: «Il teatro è armonia fra attore testo e spazio. Ma, in fin dei conti, somiglia molto di più ad una falegnameria dove si lavora sodo per dare forma e solidità a un tavolo che non traballi...»

Nome e cognome: Francesco Saponaro.

Professione: Regista.           

Età: 46.

Quando e come hai deciso di “vivere” di teatro? Ho cominciato a immaginare il teatro come dimensione primaria della mia vita molto presto, dopo un laboratorio teatrale, intorno ai sedici anni. Poi a vent’anni la svolta vera e propria. Frequentavo l’università e cercavo, forse senza troppa convinzione, di costruirmi un’esistenza rassicurante… Il seguito lo devo a un atto di fiducia da parte di mio padre. Ancora oggi, ogni volta che faccio uno spettacolo, cerco di onorare quella lezione di autonomia e libertà. Oggi vivo dignitosamente del mio lavoro, anche se il ritardo nei pagamenti costringe me e molti miei colleghi a una precarietà con cui si è costretti a fare tristemente i conti.

Cosa significa costruire regie e dirigere gli attori?  Il teatro ha bisogno che qualcosa accada davvero nei nostri cuori; ci consente di vivere ancora momenti di umana partecipazione, condizione sempre più rara nel mondo contemporaneo. A farlo accadere sono gli attori, recita dopo recita. La regia per me è, prima di tutto, direzione degli attori. Rivendico con orgoglio questo ruolo. Il lavoro del regista sta proprio nell’impostare una visione basilare, ma nel saperla lasciare fluttuare perché prenda corpo e vita attraverso il lavoro con gli interpreti.

Il tuo film preferito? C’era una volta in America di Sergio Leone. Mi rammarica solo che non l’abbia scritto e diretto con Stanley Kubrick che è il mio regista preferito, così avrei evitato qualche esitazione nella risposta.

Il tuo spettacolo teatrale preferito? (Fatto da lei o da altri). Rasoi dai testi di Enzo Moscato, uno spettacolo manifesto di Mario Martone e Toni Servillo, prodotto da Teatri Uniti. Uno spartiacque e una porta aperta verso il futuro.

Hai lavorato con tanti attori. Cosa t’hanno dato e chi ricordi con più affetto? Ho avuto la fortuna di lavorare con attori straordinari della mia generazione (Peppino Mazzotta, Enrico Ianniello e Tony Laudadio, Giovanni Ludeno… per esempio) con loro ho condiviso spesso progetti che vanno molto al di là della messa in scena e mi hanno lasciato qualcosa, nella capacità di vivere la regia come atto di collaborazione e complicità, un percorso maieutico. Poi ci sono altri attori più maturi, più grandi di me, quasi dei fratelli maggiori: Toni Servillo, Anna Bonaiuto, Licia Maglietta, Gianfelice Imparato, Gigio Morra, Tonino Taiuti, Enzo Moscato, Elia Schilton, Andrea Renzi… da loro ho appreso il rigore e l’umiltà, il grande rispetto per il lavoro e per il ruolo che ciascuno ricopre.

francesco-saponaro5Qual è il regista da cui hai imparato di più? Ci sono insegnamenti che si mutuano dallo studio e dalla visione, poi ci sono le esperienze vive e concrete. Mi sono formato guardando e studiando le messe in scena di grandi maestri: Strehler, Ronconi, Castri, De Berardinis, Carmelo Bene, Cecchi, Martone… Su tutti ricordo il lavoro di regista assistente di Toni Servillo per la sua messa in scena di Sabato, domenica e lunedì di Eduardo De Filippo che mi ha cambiato la percezione del teatro come espressione di armonia tra attore, testo e spazio.

Il libro sul comodino: Tengo miedo torero (Ho paura torero) di Pedro Lemebel… E Il viaggiatore incantato di Nicolaj Leskov… Ma ce ne sono anche altri…

La canzone che ti rappresenta: Fino a qualche tempo fa avrei detto My favourite things di John Coltrane, che non è propriamente una canzone e allora penso che Terra mia di Pino Daniele resta un atto di fede.

Prosecco o champagne? Champagne. Per tutto il resto c’è sempre il vino, preferibilmente italiano, rosso e di buon corpo.

Shakespeare, Eduardo o Beckett? Potrei dire che l’uno senza l’altro non hanno senso o addirittura non possono esistere. Naturalmente c’è una questione cronologica e certo Shakespeare (o chiunque fosse in quel nome) è fondativo e imprescindibile per il teatro occidentale. Sappiamo che a sua volta si è alimentato di esperienze precedenti. Il teatro è la vita che continua e non c’è niente che può continuare senza una base, una storia, una tradizione. Beckett è intriso di Shakespeare e Eduardo si congeda dalla vita con la sua Tempesta in napoletano. Qualcosa vorrà pur dire….

Il primo bacio: rivelazione o delusione? La prima volta è un gioco audace, un ardimento. In ogni caso il bacio è sempre la rivelazione di un incontro, meglio se tenero e dolce.

Strategia di conquista: qual è la tua? Non ho una strategia. Nel corso degli anni ho perso un po’ della mia naturale timidezza. Cerco di essere galante… E poi mi piace cucinare. Non potrei sedurre chi non ama il cibo e il buon vino.

Categorie umane che non ti piacciono? I bari e i truffaldini. Mi piacciono quelli che si giocano la vita ad armi pari, meglio se a mani nude e pulite, senza dopare se stessi o il mercato.

Cosa significa invecchiare? Non lo so, non sono ancora vecchio e quando lo diventerò credo che sarà difficile accorgermene.

Il sesso nobilita l’amore o viceversa? Insieme fanno scintille e quelle scintille accendono il fuoco (che riscalda la vita).

Meglio le affinità elettive o l’elogio degli opposti? Ci si rende conto di essere insieme solo se si parte dal rispetto delle proprie distinte identità.

YO EL EREDERO - NTFI 2012Costretto a scegliere: regista di prosa, cinema o lirica? Ho sempre avuto un particolare interesse per gli allestimenti in spazi non convenzionali, per la relazione e l’interferenza tra diversi linguaggi, in un dialogo serrato tra teatro, cinema e arti visive. Ma cerco di evitare le classificazioni. Le cornici e le categorie sono una limitazione… e così spesso mi diverto a ‘dipingere’ anche fuori dalla tela… qualche volta mi diverto a imbrattarla, anche. Certo, il teatro è la ‘primogenitura’ del mio lavoro, ma sempre più spesso (anche con le esperienze di questi ultimi anni nel documentario) penso al cinema, poi mi fermo e ci ripenso… chissà…

Com’è cambiato il teatro dai tuoi esordi ad oggi? Credo che siano cambiati i riferimenti istituzionali e la politica che era certamente più attenta allo sviluppo di nuovi modelli e al sostegno concreto alle nuove generazioni. Quando con alcuni colleghi abbiamo fondato Rossotiziano, tra il 1995 e il 1997, c’erano strutture più attente e una rete di riferimento. Nel 1997 venimmo riconosciuti dal Ministero dei Beni Culturali tra le compagnie giovani, attraverso un bando pubblico e un progetto molto articolato sul piano artistico e produttivo con un un finanziamento ad hoc che permetteva a cinque giovani realtà nazionali di produrre e distribuire il proprio lavoro. Rossotiziano aveva una struttura organizzativa e artistica collegiale e una gestione ed elaborazione dei progetti con tempi dilatati. Nel nostro caso fummo accolti e sostenuti da Teatri Uniti pur mantenendo la nostra autonomia artistica e progettuale. C’era un confronto, una pratica vivace e una rete di riferimento, ma anche un obbligo ad essere consapevoli dei dati amministrativi e organizzativi all’interno di un sistema che cercava di rafforzare il lavoro dei giovani. Poi tutto è saltato dopo qualche anno. Rossotiziano ha chiuso i battenti nel 2005, dopo circa dieci anni di lavoro e progetti nati da una sperimentazione dei linguaggi e della drammaturgia. Mi sembra così lontana quella stagione, e purtroppo la spinta al confronto tra generazioni, una flessibilità nutrita da curiosità… io non la vedo, se non in pochi e sporadici casi. Sento invece che in nome e per conto di una lotta a un sistema che non funziona, ci si batte solo per essere al posto di qualcun altro senza avere – non sempre naturalmente – la solidità artistica e la consapevolezza gestionale per affrontare con serietà e competenza il lavoro del teatro. Non credo che l’unica soluzione utile e possibile risieda esclusivamente nella pars destruens dei modelli precedenti.

L’ultima volta che sei andato a teatro, cos’ha visto? Un tram che si chiama desiderio al Teatro Mercadante di Napoli.

Racconta il tuo ultimo lavoro La bohème di Giacomo Puccini, in scena dal 16 al 21 dicembre al Teatro di San Carlo di Napoli, una delle più note e originali creazioni del teatro lirico di tutti i tempi, un capolavoro assoluto del melodramma. L’opera, tutta immersa dello scontro universale tra arte e vita, affronta un tema di profonda attualità: la giovinezza che tragicamente sfiorisce in un contesto di indigenza e degrado. Povertà e disagio assediano l’esistenza spensierata di un gruppo di giovani artisti fino a corrompere la più bella stagione delle speranze; così anche l’amore deve arrendersi di fronte alla malattia che cova nel petto innocente della protagonista.

Perché il pubblico dovrebbe vederlo? Perché è ancora una vicenda che ci riguarda da vicino e perché la musica di Puccini è un’esperienza meravigliosa che eleva lo spirito e illumina le nostre vite.

francesco-saponaro4Il mondo del teatro è veramente corrotto come si dice? Il mondo è corrotto e quindi lo è anche il teatro. Ma nonostante la corruzione e la viltà, il teatro rimane un’esperienza umana necessaria e insostituibile.

La cosa a cui nella vita non vorresti mai rinunciare. La Natura. Se perdiamo il rispetto e il rapporto con la Natura perdiamo tutto.

Quella cosa di te che nessuno ha mai saputo (fino ad ora). Quando la scopro… la confesso, forse.

Piatto preferito: Amo il pesce, ma anche gli spaghetti cucinati con aglio, olio, peperoncino, un pugno di capperi e uva sultanina, olive nere, pinoli, due alici salate e prezzemolo tritato fresco… piatto veloce, apparentemente semplice, che va ben armonizzato. Ideale al rientro a Napoli dopo lunghe assenze.

La morte: paura o liberazione? Cerco di fare attenzione al principio di eternità che spesso disorienta le nostre vite. La morte non mi fa paura, forse perché ho dovuto farci i conti da bambino. A volte mi rendo conto che in molte regie insisto sul rituale della morte. Forse è proprio questo che mi permette di fare spettacoli pieni di vita.

C’è parità di trattamento nel teatro tra uomini e donne? Soffriamo la mancanza di una drammaturgia orientata al femminile. La cultura occidentale degli ultimi secoli è tendenzialmente maschilista e quindi anche i ruoli per le donne sono numericamente inferiori. Ma non credo che il teatro sia un luogo di disparità…

Mai capitato di dover rifiutare un contratto? Se sì, perché? Mi è capitato una volta e credo di aver fatto bene… Non posso lavorare con il peso di un’imposizione. Posso accettare un suggerimento, elaborarne le ragioni e farle mie, ma devo arrivarci con autentica convinzione. Ho un carattere non semplice – lo riconosco – e le imposizioni finiscono per rendermi il lavoro inaccettabile.

Di lasciarti sfuggire un’occasione di lavoro e di pentirtene subito dopo? Penso che avrei potuto dire qualche altro no e pretendere maggiori garanzie iniziali nelle condizioni di lavoro.

francesco-saponaro3Cos’è un attore? Non lo so, è una continua scoperta. Sono stato attore per circa dieci anni, so cosa vuol dire stare in palcoscenico, ma non sono in grado di classificare un essere così complesso, affascinante e misterioso come l’attore… è per questo che amo lavorare con loro.

Meglio essere: felice, sereno o contento? Meglio farci una canzone: son felice, sì però…

Gli attori dimenticano le battute: condannati o graziati? Semplicemente poco concentrati.

Cosa rappresenta per te il pubblico? In matematica sarebbe la funzione di U, dove U sta per Umanità.

Tre pregi e tre difetti che bisogna avere e non avere per poter fare questo mestiere. Ci vuole tanta salute per fare teatro: salute mentale e fisica, soprattutto. Per quanto riguarda i difetti la protervia, il narcisismo (eccessivo) e la mancanza di ascolto sono contrari al senso di comunità fondamentale per fare teatro.

Cosa accadrebbe all’umanità se il teatro scomparisse? Vorrebbe dire che sarebbe scomparsa l’Umanità. Forse cambieranno le forme e i luoghi del teatro ma mai la necessità dell’uomo di rappresentarsi. Quindi non credo che il teatro possa scomparire.

Gli alieni ti rapiscono e puoi esprimere un solo ultimo desiderio. Quale? Eliminare le guerre, poi possiamo partire per Alfa Centauri.

La frase più romantica che tu abbia mai ascoltato in scena. Sono andati? \ Fingevo di dormire \ perché volli con te sola restare. \ Ho tante cose che ti voglio dire \ o una sola, ma grande come il mare. \ Come il mare profonda ed infinita… \ Sei il mio amore e tutta la mia vita! Ma c’è bisogno della musica di Puccini per apprezzare tutta la potenza romantica di questo straordinario passaggio del IV quadro di Bohème cantato da Mimì.

Dolore sotto chiave di Eduardo De Filippo; regia di Francesco SaLa frase più triste che ti sia toccato di sentire in scena. Sola, perduta, abbandonata… in landa desolata! Orror! Intorno a me s’oscura il ciel… Ahimè son sola! E nel profondo deserto io cado, strazio crudel, ah! Sola abbandonata, io, la deserta donna! Ah! Non voglio morir! Non voglio morir!” Straziante meravigliosa frase della Manon Lescaut, ancora una volta Puccini, nel suo quarto esiziale atto. Ma anche qui, purtroppo, ci sono solo parole e manca la musica…

Gli attori vanno guidati o lasciati ai loro istinti? Va guidato il loro istinto… se l’istinto è talento.

Cosa vorresti che la gente ricordasse di te? Non mi sembra ancora il caso di scegliere un epigramma.

Hai mai litigato con un attore/trice per una questione di interpretazione del personaggio? Se sì, che comportamenti adoperi. Si possono avere divergenze di opinione, ma se lavoro con un professionista non ci sono margini per il litigio. Se si litiga vuol dire che c’è qualcosa alla base del rapporto che è compromesso, quindi è bene mettere fine al rapporto. Il litigio è volgare, fine a se stesso… non ci può essere futuro tra un regista e un attore che litigano.

Hai mai litigato con un produttore per una questione di soldi? No, ma potrebbe accadere… Le attese si stanno facendo sempre più asfissianti e insopportabili.

Se potessi svegliarti domani con una nuova dote, quale sceglieresti? Sto provando a esercitare il controllo dell’ansia e sul rapporto fragile che ho con il tempo, soprattutto quando lavoro.

Se potessi scoprire il tuo futuro, cosa vorresti sapere? Mi rammarico di non avere avuto ancora un figlio. Ma forse ho ancora qualche speranza… i bambini sono la grazia della vita.

Che cosa è troppo serio per scherzarci su? Scherzando si può dire tutto, anche la verità…

Qual è il tuo ricordo più caro? Tra i tanti credo che sceglierei il ricordo di mio nonno paterno.

E il ricordo più terribile? Il terremoto del 1980.

Parallelamente al tuo percorso artistico, trovi che in questi anni ci sia stata un’evoluzione o un deterioramento del teatro? Il teatro si muove come un elastico intorno alla vita che rappresenta e all’epoca in cui si manifesta. Però è vero che i politici di turno, con il contributo e la cecità dei teatranti, così fiaccati e disuniti, stanno facendo di tutto perché il teatro perda il suo peso e la sua legittimazione sociale.

Il rapporto con la parola. La interroghi, la ricerchi, la domini o ti fai dominare? Mi piace la parola quando si declina attraverso una visione, un’azione. Solo allora diventa poesia…

Cosa pensi delle nuove generazioni di attori che, a volte, passano direttamente dai talent al palcoscenico? Non penso niente. Non guardo i talent show.

Ti viene data la possibilità di presentare tre proposte di legge in materia spettacolo. Cosa proponi? Ridistribuzione dei fondi, incentivo alla nuova drammaturgia, sviluppo di un dialogo e di una reciprocità reale tra grandi e piccole strutture e tra diverse generazioni di artisti e operatori teatrali.

Cosa è necessario per un attore: memoria storica o physique du rôle? Studio, etica e gioia.

francesco-saponaro7Hai un sogno nel cassetto che oggi può aprire. Cosa viene fuori. I sogni privati tali restano, quindi meglio dedicarsi a quelli di interesse pubblico. L’emancipazione e la crescita culturale del paese penso siano questioni di interesse pubblico e per questo primari e imprescindibili. E per restare alla mia città sogno un teatro vivo che sia anche etico, che sappia pensare con rispetto alla tradizione come un trampolino per guardare al futuro e sappia parlare alle giovani generazioni senza perdere la propria identità.

I soldi fanno la felicità? Possono ridurre il rischio di infelicità, ma non è affatto certo che lo eliminino.

Perché si dice spesso che il teatro di regia è morto? Non lo so. Per me muoiono insieme alle loro categorie tutti quelli che ne hanno bisogno. Le asserzioni lapidarie piacevano tanto un tempo, ma impediscono la dialettica. E a me la dialettica e le sfumature divertono molto, allenano cervello e cuore. E comunque meglio che sia morto il teatro di regia che i registi di teatro.

Qual è il tuo rapporto con i social network? Spero di avere lo stesso rapporto che immagino possa aver avuto mio nonno da giovane con l’avvento dell’automobile. L’uomo inventa dispositivi che sono neutri per se stessi. La tecnologia esiste, la uso, facendo attenzione a non essere investito e a non investire nessuno. E soprattutto a parcheggiare correttamente quando ho finito il giro. Non credo alla dialettica sviluppata sui social. Penso che i social siano un amplificatore numerico di informazioni o di enunciati, ma nutro seri dubbi sulla possibilità democratica del dibattito in rete.

Il tuo rapporto con la critica. Quale quella che più ti ha ferita in questi anni. La critica che dipende da fattori personali e dai pre-giudizi mi fa molta pena, come cittadino prima di tutto. La critica che sobilla il teatro del risarcimento individuale è pericolosa e iniqua, perché incapace di entrare nel merito della pratica scenica… Cesare Garboli ha scritto un meraviglioso libro che consiglio: Scritti servili. Andrebbe letta e studiata almeno la sua prefazione, soprattutto da quelli che si affacciano alla critica credendo che il teatro coincida con l’attimo del loro vagito post universitario (sempre se siamo fortunati): “Io non scrivo ‘contro’, scrivo ‘per’. […] Tutte le parole che hanno sorretto e fatto esistere il mondo si danno convegno nel mutismo di una stretta di mano: la vita e la morte, il piacere e il castigo, il coraggio, la sfida, l’onore, la vendetta, la giustizia, la paura, il mistero”. Penso dunque alla critica come militanza attiva, una stretta di mano con la pratica scenica. Ma bisogna essere ben consci di cosa sia questa pratica. Ammiro molto e tengo in gran considerazione quei critici che hanno strumenti concreti per decifrare con serietà e consapevolezza il lavoro di palcoscenico, in grado di nutrire e stimolare forme di auto\critica in chi li legge. Per fortuna il teatro rimane una cosa viva e molto artigianale; più simile a una falegnameria dove si fabbricano sedie e tavoli belli ma anche utili e funzionali. Il teatro si fa a teatro… il resto è opinione…

Poco prima dell’inizio e poi della fine di un tuo spettacolo, a cosa, o a chi, pensi? A mio nonno. Sempre! E se a una prima non indosso il suo vecchio orologio mi sento perduto.

Il teatro riesce ancora a catalizzare la passione civile del pubblico in modo attivo? Credo di sì, ho questa sensazione. Forse è la passione civile ad essere ridotta ai minimi termini e soprattutto riguarda pochi. Passione civile per me significa consapevolezza. Il teatro che riesce a mettere al centro della propria tensione l’armonia tra cervello e cuore è un teatro della consapevolezza, ed è già un atto civile. Il teatro ‘sociale’, il teatro ‘politico’, il teatro ‘civile’, tutti quei teatri che hanno sempre bisogno di un aggettivo per legittimarsi, non mi convincono. Il buon teatro è di per sé un atto di civiltà e di resistenza civile.

Con i tagli economici alla cultura, il teatro diventerà un’arte di nicchia oppure ci sarà una prevalenza di teatro di medio-basso livello o amatoriale? Il teatro è per tutti e di tutti. E’ Umanità… Per questo è necessario l’intervento dello Stato, come per la scuola, la sanità, i trasporti… gli algoritmi che sono la base dei finanziamenti teatrali obbligano sempre più spesso a produrre quantità a svantaggio della qualità. A questa degenerazione bisogna resistere con assoluto vigore.

C’è un autore teatrale che credi sia poco considerato e che andrebbe rivalutato e rappresentato? Vorrei vedere rappresentati nuovi autori che sappiano scrivere per gli attori, nei teatri stabili o nazionali, con percorsi di residenza, con letture sceniche che ne testino, prima di tutto, la validità di linguaggio teatrale in rapporto col tempo che viviamo. Ma per far questo dovrebbero essere le grandi strutture pubbliche a farsi carico di scelte lungimiranti e coraggiose. In passato a Napoli ci sono stati esperimenti in questa direzione. Peccato che le buone esperienze spesso, in una città che non conosce memoria, si perdano come lacrime nella pioggia.

Progetti futuri? Ho appena terminato il riallestimento di Bohème per il teatro di San Carlo di Napoli: una grande emozione tornare a Puccini nel Massimo napoletano. A gennaio la ripresa di Dolore sotto chiave e Pericolosamente, due atti unici di Eduardo De Filippo prodotti da Teatri Uniti, nella sala Christian Bérard del Teatro Athenèe-Louis Jouvet di Parigi. Poi l’avvicinamento lento e delicato a un testo di Enzo Moscato.

Un consiglio a un giovane che voglia fare questo mestiere. STUDIA! Scegliti buoni maestri, fai attenzione a non cedere a visioni mistiche e aleatorie. Stai in ascolto e ricorda che il teatro fa sudare e rompere le unghie in sala. Evita di sentirti un grande solo sorseggiando uno spritz nelle piazze alla moda della città, o collezionando like su un social network. Il teatro, in fin dei conti, somiglia molto di più ad una falegnameria dove si lavora sodo per dare forma e solidità a un tavolo che non traballi…

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Foto di Gianni Fiorito, Francesco Squeglia, Fabio Esposito, Marco Ghidelli, Salvatore Pastore, Michele Crosera.

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