Periscopio (globale)
Il jazz di Cortázar
Torna, in una nuova traduzione, “L'inseguitore”, racconto centrale nella produzione di Julio Cortázar. Un'indagine sul maledettismo e la creatività, inseguendo il mito di Charlie Parker
Ci sono scrittori che dispongono non solo di maestria tecnica e d’ispirazione, ma anche di una voce, e ci sono voci alle quali per un motivo o per l’altro siamo più sensibili. È il caso, per quanto mi riguarda, di Julio Cortázar, autore che ho molto amato (e studiato) negli anni dell’università e che continuo a leggere con immutato entusiasmo, direi quasi con laica venerazione. Cortázar è d’altronde un autore che sembra fatto apposta per piacere in particolare a un lettore giovane: le storie che racconta sono interessanti, profonde, mai banali, ispirate a una dimensione fantastica che resta però saldamente ancorata alla realtà quotidiana; i dialoghi sono tesi e pertinenti; la sintassi scorre ma è al tempo stesso di una complessità intrigante, e fa sì che la lettura diventi una sfida continuamente vinta, e dunque un premio, per l’intelligenza. Aggiungiamo pure il radicamento nella grande tradizione del Novecento ispanoamericano e la sensibilità a temi di riscossa e giustizia sociale, trattati in modo non manicheo, e abbiamo un quadro – credo – abbastanza preciso dei pregi di uno scrittore che ha raggiunto gli esiti più significativi nella forma più compatta e difficile, quella del racconto, dove ha saputo conciliare economia di mezzi e tensione narrativa.
Questo mio ultimo contributo del 2016 sarà dunque dedicato a Cortázar, e un’ottima scusa, se mai ve ne fosse bisogno, mi è fornita dalla pubblicazione presso l’editore Sur del racconto El perseguidor, finalmente e felicemente tradotto dall’esperta Ilide Carmignani L’inseguitore (anziché, come in passato chez Einaudi, Il persecutore), con la resa corretta della prima accezione del termine in spagnolo. Vanno segnalati inoltre, nella versione appena uscita, una ventina di pregevoli disegni del fumettista e illustratore argentino José Muñoz, con forti contrasti fra bianco e nero, luci e ombre, e una densa pastosità del tratto, che al volume aggiungono un’interessante interpretazione pittorica.
Nelle lezioni tenute a Berkeley nel 1980 (Clases de literatura) lo stesso Cortázar sottolineava l’importanza di questo racconto: in effetti, esso rappresenta uno spartiacque che l’avrebbe poi portato alle prove più impegnative, a cominciare dal romanzo Rayuela, tanto da esser stato definito dal critico Angel Rama una rayuelita. Allontanandosi dal genere fantastico, per la prima volta Cortázar riesce a delinearvi con forza una presenza umana, in carne e ossa, e a farne il vero e proprio centro della narrazione. Il protagonista Johnny Carter, come è risaputo, è una trasfigurazione di Charlie Parker, ma la sua storia mescola spunti veri tratti dalla biografia di Parker con aneddoti riferibili ad altri musicisti jazz, facendo del personaggio Carter una specie di epitome del musicista maledetto e condannato alla decadenza fisica, all’abbandono, alla solitudine e alla morte precoce.
In questo senso L’inseguitore ha forse molti padri. Vengono in mente Dostoevskij, Faulkner, naturalmente Borges. Fra gli altri, è stato accostato al Doktor Faustus di Thomas Mann, autore di cui Cortázar ha più volte ammesso l’influenza; si è parlato cioè di una risposta letteraria a Mann e della creazione di un anti-Faust, con un protagonista non intellettuale, la cui arte si esprime anzi attraverso l’immediatezza e l’inconsapevolezza. La sua genialità si rivela insomma solo attraverso la percezione altrui dell’arte che, quasi senza volerlo, Johnny Carter produce.
Se è trasparente come il nome di Johnny Carter, per numero di sillabe e assonanze, rimandi a Charlie Parker, è altrettanto evidente che la J e la C sono anche le iniziali dello stesso Cortázar, e che le consonanti del cognome Carter sono tutte presenti (vi si aggiunge solo una ‘z’) nel cognome dello scrittore. Cortázar non è quindi sfuggito del tutto alla tentazione autobiografica, o quanto meno ha voluto, per il tramite del suo personaggio, mettere in scena le suggestioni e i problemi – primo fra tutti la solitudine dello scrittore esiliato a Parigi – che lui stesso stava vivendo alla fine degli anni Cinquanta. (Ricordiamo en passant che il racconto è del 1955 ed esce nella raccolta Las armas secretas, del 1959.) Le coincidenze fra autore e personaggio sono innumerevoli: basti pensare alla passione di Cortázar per il jazz, all’ambientazione a Parigi, alle idiosincrasie e al carattere difficile (o semplicemente pronunciato e tutt’altro che incline a compromessi), al fatto di essere entrambi (musicista e scrittore) rappresentanti di culture certamente non egemoni, e via aggiungendo. Il racconto diventa così anzitutto denuncia dell’impossibilità di trovare un posto consono all’artista in una società arresasi ormai al pragmatismo e alla fretta, che all’arte non lascia più alcuno spazio.
Il tema del doppio, ricorrente in molte opere di Cortázar, si sostanzia qui della figura di Bruno, il biografo, che allo stesso tempo è un duplicato dello scrittore in un’altra fase della sua vita. Bruno è un Cortázar giovane, per molti versi ancora ingenuo, affascinato dagli artisti, di cui avverte (e rifiuta) la superiorità, e in buona fede ancora convinto di poter capire qualcosa della loro arte vivendo loro accanto e agevolandone per quanto possibile l’esistenza, o semplicemente essendo testimone (e interprete) delle loro peripezie. Al tempo stesso, per i suoi limiti evidenti di comprensione ed elaborazione delle cose, Bruno è condannato all’insuccesso, sia come (del resto improbabile) salvatore, sia in qualità di storico e biografo. L’inseguitore diventa così anche un racconto sull’impossibilità del discorso critico e biografico, che deve arrendersi di fronte al mistero che qualunque vita umana conserva agli occhi della società frettolosa che la elude e ignora. Non a caso Bruno il suo libro lo scrive, ed esso avrà anche un certo successo di pubblico, garantendogli quelle entrate economiche che per la società fanno appunto la differenza; ma la conclusione è che nulla di Johnny fa veramente parte del libro, e nulla del suo segreto potrà essere trasmesso al pubblico dei lettori, trasformando l’impresa di Bruno in un incontrovertibile fallimento.
L’indagine sull’origine del talento di Johnny Carter si conclude quindi con uno stallo: il mistero di chi riesce a creare bellezza, per di più senza volerlo, resta insondabile. Tossicomane, affetto da visioni e incubi, refrattario a qualunque legame profondo, incapace perfino di aver cura del proprio strumento, Carter è un essere confuso, perso in un proprio mondo autistico, il cui rapporto con lo spazio e con il tempo sembra essere nullo; è la spontaneità assoluta, ciò che non si lascia incasellare, le cui manie possono essere comprese da una persona “normale” qual è Bruno solo in modo necessariamente fuorviante.
Cortázar ha spesso paragonato la misura del racconto con la sfera, forma geometrica perfetta poiché chiusa in sé e inattaccabile, dove “cada uno de los infinitos puntos de su superficie son equidistantes del invisible punto central” (“ciascuno degli infiniti punti della superficie sono equidistanti dall’invisibile punto centrale”). Se ci appropriamo di questa metafora, il punto centrale sarebbe qui l’inafferrabile nozione che chiamiamo arte o talento, un cuore caldo intorno al quale tutti i personaggi – tanto lo stesso Johnny, quanto Bruno e Dedée, la compagna di Johnny – sembrano ruotare come falene impazzite, attratte e al contempo spaventate.
Perché, sembra ricordarci Cortázar, l’arte vera incute sempre un salutare timore.