Raoul Precht
Periscopio (globale)

I segreti di Donoso

Ritratto di José Donoso, lo scrittore che viveva nella sue pagine sempre sospese tra due registri: quello dell’indignazione politica e civile e quello della resa grottesca della realtà

Una bancarella di libri è quasi per definizione un posto dove non si trova mai quel che si vorrebbe. In compenso, capita di rinvenirvi letture che non si sarebbero altrimenti cercate e che misteriosamente si adattano perfettamente al momento che si sta vivendo. È quanto mi è capitato qualche tempo fa, quando, nascosta tra pile di libri di nessun interesse, ho rinvenuto la traduzione di un romanzo di José Donoso, Lagartija sin cola (Lucertola senza coda, Cavallo di Ferro, 2012).

Scrittore cileno di notevole rilevanza, ma poco conosciuto in Italia, Donoso è morto quasi esattamente vent’anni fa (il 7 dicembre 1996) e ha lasciato un’ampia produzione narrativa e saggistica. Il romanzo di cui parlavo è un inedito scoperto dalla figlia adottiva Pilar (nella foto sotto con il padre) tra le carte cedute dallo stesso Donoso alla biblioteca dell’Università di Princeton e rappresenta quel che si suol definire un testamento spirituale, anche se alla maniera di Donoso, e cioè con spunti divertenti e talora quasi surreali e un’attenzione costante al dato psicologico.

Jose donosoÈ la storia di un pittore al termine della carriera, amareggiato per la piega presa dalle mode del momento e dalle leggi del mercato, che s’innamora di un borgo dell’entroterra catalano e decide di acquistarvi una casa di pietra. Con il passare del tempo e l’apertura al turismo, il luogo da lui scelto perde tuttavia progressivamente le sue qualità paradisiache, e il protagonista si trova a dover difendere i valori artistici ed estetici del borgo contro gli abitanti dello stesso, che puntano invece ad arricchirsi rapidamente sacrificandolo (e sacrificando senza saperlo anche se stessi) al rapace agguato del turismo di massa. D’altro canto, quest’involuzione è dovuta paradossalmente proprio alla sua iniziale “scoperta” del villaggio e all’averlo rivelato ad alcuni amici, innescando un meccanismo che in pochi anni avrebbe portato a una vera e propria invasione da parte del turismo internazionale: “Sei anni dopo essere arrivato, ero io il colpevole: colui che aveva iniziato l’irreversibile processo di corruzione,” deve riconoscere infatti il protagonista, avviando una riflessione serrata, mai banale, su tradizione e progresso, e soprattutto sul concetto di utopia e sulla necessità della medesima per poter sopravvivere in un mondo che sempre più s’ispira alla bruttezza e alla volgarità.

Donoso era sempre stato ossessionato dal fatto di essere uno scrittore e di non poter diventare nient’altro. La scrittura era per lui vita nel senso più stretto: raccontava di non poter leggere un romanzo giallo se non cominciando dalla fine e appropriandosi subito dello scioglimento, perché altrimenti gli avrebbe messo troppa paura. La sua ambizione perenne fu quella di scrivere il grande romanzo cileno per eccellenza, il che spiega anche la sua predilezione per gli alberi genealogici dei suoi stessi personaggi, in cui cercava d’inserire tutto il proprio vissuto.

Noto anche come il “quinto” nel gruppo degli scrittori – gli altri sono García Márquez, Cortázar, Fuentes e Vargas Llosa – che saranno baciati dal successo planetario del cosiddetto realismo magico degli anni ’60, Donoso era anche uno dei più generosi e dei più aperti all’influenza di culture straniere, soprattutto di quella anglosassone. Aveva studiato in una scuola britannica, la Grange School di Santiago, scritto i suoi primi racconti adolescenziali in inglese e frequentato in seguito l’Università di Princeton, laureandosi in letteratura inglese. Nel 1972 racconta la propria versione della riscoperta della letteratura ispanoamericana in Storia personale del “boom”, una specie di avvincente e talora spietata cronaca, autobiografica e dall’interno, di un movimento e di una letteratura cui l’improvvisa fama regala visibilità ma anche il rischio di malintesi interpretativi: come scrive nell’incipit del libro, “il ‘boom’, reale o fittizio, importante o trascurabile, ma soprattutto mescolato a quell’inverosimile carnevale che gli è stato attribuito, è una creazione dell’isterismo, dell’invidia, della paranoia”.

Ma la vis polemica di Donoso viene da lontano. Coronación, il suo primo romanzo (1957), è un attacco alla classe dirigente cilena, così come successivamente in Este domingo (1966) se la prenderà con la Chiesa cattolica, rievocando le domeniche di un’adolescenza solitaria e provinciale, e in El lugar sin límites (1967) con l’orrore che gli ispirava in generale la vita dei suoi contemporanei. Questo luogo senza confini è infatti l’inferno, incarnato qui dal postribolo di un luogo perso nella campagna sudamericana. La sua descrizione della decadenza di una borghesia sempre più compromessa con il potere – che in Cile in quegli anni significava, non dimentichiamolo, dittatura militare, significava Pinochet – è stata accostata da alcuni critici ai corpi in stato di avanzata putrefazione di certe opere di Francis Bacon, soprattutto nelle immagini percussive de El obsceno pájaro de la noche (1970) e Casa de campo (1978). Non è quindi un caso che il suo allontanamento provvisorio e “volontario” dal Cile abbia finito per durare ben diciotto anni. Il suo ritorno è descritto in La desesperanza (1986), opera sociologico-letteraria il cui titolo è già di per sé eloquente, seguita da un romanzo di notevoli dimensioni, Donde van a morir los elefantes, al quale lavora molto intensamente fino agli ultimi giorni, ben sapendo di essere gravemente malato e di non avere più molto tempo a disposizione.

jose-donoso2Resta di lui, oggi, una forte influenza sulla più giovane letteratura sudamericana, e in special modo cilena, che sviluppa ancora il connubio di due registri donosiani, quello dell’indignazione politica e civile e quello della resa grottesca della realtà. Del resto, al suo ritorno in Cile nel 1980 e malgrado la dittatura, Donoso aveva animato per anni un corso gratuito per giovani scrittori, ponendolo intelligentemente sotto la protezione della Chiesa cattolica, una delle poche istituzioni che poteva in qualche modo tener testa al regime, e trasformandolo in un esercizio di resistenza passiva al triste frangente storico. Bisogna immaginarsi un paese culturalmente allo sbando, che la censura preventiva aveva ormai privato di case editrici indipendenti, e dove sopravviveva a stento qualche libreria. Nasce forse proprio nel corso di questi incontri la nozione, cara a Donoso, di fisura: la fessura, cioè, che consente una visione obliqua della realtà spesso consustanziale all’ideazione artistica, la fessura come paziente denuncia di disagio e come espressione di perplessità nei confronti del mondo che ci circonda.

“Guarden sus manoscritos. No boten nada de lo que escriben. Los diarios de vida, las notas de lavandería, las listas de amigos o enemigos, guarden todo.” (“Conservate i vostri manoscritti. Non gettate via nulla di quel che scrivete. I diari della vostra vita, i conti della tintoria, gli elenchi di amici o nemici, conservate tutto.”) Così diceva Donoso agli alunni di un altro corso di scrittura creativa, quello tenuto da Antonio Skármeta nel 1988. I suoi diari – ben 64, ciascuno composto da varie centinaia di pagine – sarebbero poi stati in effetti una miniera d’oro per i ricercatori, prima fra tutti la figlia adottiva, che ne avrebbe tratto nel 2010 un doloroso e controverso ritratto di famiglia in Correr el tupido velo. Sembra che sia stato lo stesso Donoso a chiederle di rivelare tutto, dalle sue ben nascoste pulsioni omosessuali alle frustrazioni e agli stati d’ansia che l’avevano sempre accompagnato. Pilar morirà suicida nel 2011, ad appena quarantaquattro anni; e uno dei frammenti narrativi trovati fra le carte del padre metteva appunto in scena una figlia che scopre i diari del padre, ne resta sconvolta e si uccide.

A volte la letteratura esagera davvero.

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