Al Guggenheim di Venezia
I fili d’erba di Tancredi
Nella retrospettiva dedicata al pittore feltrino reso celebre dalla collezionista americana, una novantina di opere ricostruisce il suo percorso creativo sempre in fieri, misurandosi con qualsiasi novità artistica e reinventandola in modo del tutto personale
Fu il pittore americano William Congdon a presentare Tancredi Parmeggiani a Peggy Guggenheim. Era il 1951 e la mecenate americana intuì subito che quel giovane introverso e taciturno, che camminava trascinando i piedi e che si firmava semplicemente con il patronimico, aveva talento da vendere. Contravvenendo ai suoi principi gli mise subito a disposizione uno studio a Palazzo Venier dei Leoni, sede che, nello stesso anno, aprì le porte al pubblico presentando le opere dei maggiori artisti contemporanei. Era nato il Museo Peggy Guggenheim. È qui che il giovane pittore avrà l’opportunità di vedere i quadri esplosivi di Jackson Pollock, composti con la tecnica del dripping, nonché il lavoro di Jean-Paul Riopelle e Mark Tobey. Ed è qui che Tancredi allaccerà una relazione con la figlia di Peggy, Pegeen Vail, anch’essa pittrice, suscitando le ire della sua protettrice che, tuttavia, nel 1954 in quella sede organizzerà una mostra dedicata a entrambi gli artisti.
La prima personale di Tancredi si era tenuta a Venezia nel 1949, presso la Galleria Sandri, sita in Campo Manin, dove aveva proposto alcuni lavori di tendenza concreta e neoplastica. Il testo di presentazione in catalogo era firmato da Virgilio Guidi. Negli anni precedenti Tancredi aveva contratto l’abitudine di disegnare in continuazione, con una naturale predisposizione per il ritratto e, soprattutto, per l’autoritratto declinato in una sequenza di molteplici varianti.
Nella retrospettiva veneziana presso la Collezione Peggy Guggenheim (dal 12 novembre 2016 al 13 marzo 2017), ben curata da Luca Massimo Barbero, sono esposti nella prima sala alcuni di questi ritratti che ben documentano l’evoluzione del segno che, da un’iniziale adesione realistica, si orienta verso la scomposizione di taglio cubista. Il titolo della mostra è La mia arma contro l’atomica è un filo d’erba, frase tratta dagli scritti del pittore feltrino che per tutta la vita aderì a una visione del mondo che presupponesse un ritorno a una dimensione più naturale e lirica dell’esistenza, contrapposta all’insensatezza dell’era nucleare e della guerra fredda.
Il rapporto con Venezia fu esaltante e, al tempo stesso, controverso. Venezia fu infatti la città della sua formazione e la città che lo fece conoscere, mettendolo in contatto sia con le personalità più rilevanti che operavano in loco (Guidi, Vedova, Pizzinato, Santomaso, Finz, Licata, Deluigi, Bacci, Vinicio Vianello) sia con le espressioni artistiche internazionali che hanno contrassegnato un’epoca. Ma, al tempo stesso, Venezia fu la città in cui l’irrequietezza subentrò alla felicità e alla facilità espressiva della metà degli anni Cinquanta, fino al ricovero presso l’istituto psichiatrico dell’Isola di San Servolo dove si acuì il suo stato depressivo che sfocerà di lì a poco nel suicidio, avvenuto a Roma nel 1964, all’età di trentasette anni, la stessa in cui scomparvero Rimbaud e Van Gogh.
In un suo scritto del 1967 il critico Berto Morucchio, che fu suo amico e sostenitore, precisa che Tancredi abitava presso la famiglia Valsecchi, in Fondamenta Bonlini a San Trovaso, e che frequentava abitualmente “Le chat qui rit”, nella sua vecchia sede in Frezzeria, dove «riempiva i tavoli con gouaches d’impronta neo-plastica». Si pensi inoltre alla collaborazione con la Galleria del Cavallino di Carlo Cardazzo (e indirettamente con quella milanese del Naviglio del fratello Renato) che rappresentarono il trait d’union con il mondo degli spazialisti milanesi (Tancredi firmerà il famoso Manifesto del movimento spaziale per la televisione stilato da Fontana, Burri, Crippa, Dova, Guidi, Deluigi e altri). L’artista fece varie personali presso la Galleria del Cavallino tra cui quella del 1959 intitolata A proposito di Venezia, organizzata con il fine di salutare gli amici e nella quale presentò opere dedicate alla città che l’aveva accolto e sostenuto, prima di recarsi a Milano dove collaborò con la Galleria dell’Ariete di Beatrice Monti e in Svezia e Norvegia, accompagnato dalla pittrice norvegese Tove Dietrichson, sposata l’anno precedente e dalla quale avrà due figli. «Ritengo che difficilmente farò altri quadri come questi perché ho lasciato Venezia» scrive nel 1959 nel catalogo della mostra presso la Galleria dell’Ariete, in cui ripropone i quadri ispirati alla città lagunare.
La retrospettiva alla Guggenheim contiene più di una novantina di opere che privilegiano alcuni grandi cicli pittorici. Tancredi infatti aveva l’abitudine di bruciare le tappe reinterpretando, in maniera del tutto personale e poetica, le molteplici suggestioni artistiche del dopoguerra, dall’informale di Pollock ai motivi espressionistici e grotteschi del gruppo Cobra fino ad arrivare ai combine painting di Rauschenberg, ma senza dimenticare la lezione di Kandinskij legata alla riscoperta del colore azzurro, il geometrismo astratto di Mondrian, le figure angoscianti di Munch ed Ensor. Luca Massimo Barbero parla, nel saggio che figura nel bel catalogo edito da Marsilio (248 pagine, 35 euro), di un atteggiamento bulimico che portava Tancredi a misurarsi con qualsiasi novità artistica si prospettasse in un determinato momento storico.
In particolare la mostra si segnala per il ritorno a Venezia di alcune grandi tele che Peggy Guggenheim donò nella seconda metà degli anni Cinquanta a importanti musei americani, tra cui il Moma di New York, il Brooklyn Museum e il Wadsworth Atheneum Museum of Art di Hartford, con lo scopo di promuovere anche oltreoceano l’opera dell’artista feltrino. Alcune composizioni astratte di Tancredi vanno lette alla stregua di un particolare tipo di puntinismo, tecnica di cui si appropria, come sempre, in maniera del tutto personale, reinventandola: «Ho imparato una “forma” molto semplice per controllare lo spazio: il puntino. Il punto è l’elemento geometrico meno misurabile che ci sia, ma il più immediato da ideare; un punto dà l’idea del vuoto da tutte le parti, di dietro, ai lati, davanti; qualunque punto realizzato formalmente è geometria, qualunque forma relativa alle dimensioni del mio quadro ha per legge il vuoto da tutte le parti».
In tale contesto Venezia, oltre a rappresentare l’habitat naturale per la sua opera (si pensi alle partecipazioni alle varie collettive della Bevilacqua La Masa ma anche al rifiuto, da parte della Biennale, di accogliere una sua Primavera), si segnala per essere stata al centro di particolari investigazioni segniche e cromatiche, fino a divenire uno dei temi-chiave di Tancredi. Ne è un abbagliante esempio il dipinto A propos de l’eau, tempera su compensato del 1958-‘59 in cui una particolare gradazione di bianco raffigurante l’acqua della laguna si evolve in uno spettro cromatico che accorpa varie tonalità di grigio stemperato in colori tenui (i palazzi affioranti dall’acqua).
La mostra si chiude sui due grandi cicli dei Diari paesani e dei Fiori dipinti da me e da altri al 101%, sorta di collages dipinti dai tratti delicati e lievi che si pongono, per la loro freschezza e spontaneità, in aperta contrapposizione con la vicenda esistenziale di Tancredi che, di lì a poco, sfocerà nell’autodistruzione. Idealmente il trittico dedicato a Hiroshima, con quell’esplosione di colori in cui fluttuano figure luminescenti di ectoplasmi, sembra riallacciarsi alle “facezie”, definite dallo stesso pittore «scherzi accorati […] fatti con un po’ di leggerezza e un tantino di amarezza». Queste composizioni rappresentano ossessivamente il mondo dei “matti”, figure nude e deformi che ostentano grosse teste itifalliche che avranno una parte preponderante soprattutto nell’opera grafica di Tancredi tra il 1959 e il 1962 e di cui, purtroppo, la mostra presenta soltanto qualche esemplare: W la pittura astratta e unpaio di frammenti incollati nei Fiori dipinti da me e da altri al 101%.