La voce del poeta: Giancarlo Pontiggia
Cieli senza dèi
Nella parola moderna, nella sua irrequietudine c’è qualcosa di fatalmente tragico. Per il poeta lombardo solo la grande poesia classica (Foscolo e Leopardi compresi) costituisce un antidoto al precipizio scuro che ci riserva la modernità. Così nei suoi versi le parole si fanno mito…
Giancarlo Pontiggia ha sempre pubblicato con estrema parsimonia. Nonostante il suo nome circoli sin dalla fine degli anni Settanta, Pontiggia ha dato alle stampe soltanto due raccolte poetiche: Con parole remote (1998) e Bosco del tempo (2005). Nel 2015 è uscita per Interlinea Origini. Poesie 1998-2010 (Interlinea, 2015, 248 pagine, 24 euro) che raccoglie tutta la produzione poetica dell’autore milanese, corredata da una congrua sezione di liriche “disperse”. Abbiamo così l’opportunità di misurarci con una parola poetica che rinvia a una pronuncia semplice e controllata, volatile e lieve, che disdegna sia le derive di un virtuosismo gratuito e anacronistico sia l’approdo al frammento come forma di rivolta novecentesca contro senso e significato.
Nei suoi testi è evidente il recupero di una dizione che si ispira ai canoni del classicismo. In che senso va interpretato il classicismo in un’epoca “antipoetica” per eccellenza come la nostra?
Non ho mai amato le forme del classicismo storico, se con questo termine si vuole definire il sistema dei generi cinque-settecentesco, giustamente disertato – e confutato – dai primi romantici. Ho sempre invece letto con passione la grande poesia classica, nella quale riconosco la capacità di salvaguardare l’energia mitica della visione senza dover rinunciare al respiro storico dei fatti e alla consapevolezza dell’agire poetico. In ogni caso, almeno da Winckelmann in poi, il nostro sguardo sui classici si è modificato irrevocabilmente, e ci ha allontanato per sempre dalle forme eccessivamente decorative del classicismo precedente. La grande poesia di Foscolo e di Leopardi mi pare interpretare perfettamente questa nuova forma della sensibilità: i Sepolcri del Foscolo, in particolare, sono l’esempio più potente di come la forza mitopoietica dello sguardo sappia fondersi con la capacità di leggere la storia, non solo contemporanea, e di esprimere la condizione esistenziale dell’uomo moderno. La letteratura greco-latina possiede inoltre una forza esemplare, civile, pedagogica (civile e pedagogica indipendentemente dai contenuti espressi) che risulta pressoché negata alla nostra modernità, e che costituisce dunque un antidoto al precipizio scuro, quasi inevitabile, delle nostre forme e dei nostri pensieri. La disciplina formale dei classici, il sentimento della misura che li anima, la precisa volontà di fare appello non solo alle forze del sentimento ma anche a quelle dell’intelletto, di esigere insomma lettori insieme colti e appassionati, costituiscono un argine alla babele linguistica e alle derive irrazionalistiche della cultura contemporanea.
Anni fa ha pubblicato un libro di saggi intitolato Contro il romanticismo. In che senso va intesa tale accezione?
Mi inquieta – come dicevo prima – ogni forma di irrazionalismo e di misticismo estetico, e tanto più perché ne sento da sempre il fascino. Tra i quindici e i vent’anni mi sono imbevuto di tutta la grande poesia europea romantica e post-romantica: Novalis, Hölderlin, Rimbaud, Rilke, Celan. Chi potrebbe negare la potenza ctonia e magmatica della loro parola, l’infera sapienzialità di quei versi piagati e notturni? Nessuno, prima di loro, era mai entrato così in profondità nella materia dell’animo umano: nondimeno, la loro lezione (parlo in termini di poetica, com’è ovvio, non di poesia) presenta un limite profondo, che è quello di sottomettere una volta per sempre la dimensione letteraria all’imperio dell’inespresso, dell’indicibile. Dall’età romantica in poi, la parola si piega lentamente, quasi inevitabilmente, al potere suasorio di ciò che sfugge a ogni forma di decifrabilità: impressionante, magmatico slancio conoscitivo destinato al naufragio, e che proprio in questo suo esito rovinoso trova la propria gloria. Anche il dio dei tragici greci poteva essere sentito come una metafora dell’imperscrutabile e di ciò che sfugge alla luce della ragione: ma le tragedie godevano dello statuto – collettivo e salvifico – del mito. L’eredità romantica è invece non solo un cielo vuoto di dèi, ma anche una civiltà priva di una cultura condivisa: ogni verso istituisce una battaglia contro ogni interpretazione, resta solo e irrelato, come se scrivere significasse rifondare ogni volta la lingua, sottrarla al peso della comunità parlante. Certo, chi potrebbe oggi identificarsi nella storia contemporanea senza provare un senso di mortificazione e di squallore? Ma questa constatazione, pur nella sua evidenza, non cancella ciò che di irrimediabilmente tragico è nell’atto della parola moderna, nella sua irrequietudine fatale.
Lei ha sempre pubblicato versi con estrema parsimonia, avendo al suo attivo soltanto due raccolte poetiche, poi confluite nel recente volume Origini che presenta, peraltro, anche una sezione di inediti.
Non ho mai cercato la poesia, non perché non ne sentissi l’esigenza, ma perché pensavo – proprio per le ragioni che ho esposto prima – che fare poesia, nell’epoca della modernità, significasse innanzi tutto non cedere alle forze troppo facili del poetico. Mi sentivo come uno che deve scrivere solo sotto l’esigenza di un’urgenza insieme esistenziale e culturale, e deve dunque rafforzare le ragioni della pazienza e dell’attesa. Con parole remote ha rappresentato per me questo momento: un libro dove parlo di me, delle mie origini, dei miei cieli, delle mie scoperte, e insieme un libro dove vado ripensando la natura stessa del poetico, e in particolare del poetico novecentesco, e dunque della storia che abbiamo vissuto. Anche Bosco del tempo è un libro di fondamento gnomico-meditativo, in cui la lezione folgorante ed epifanica della grande poesia moderna si ricongiunge con le forze più sapienziali e quiete della classicità greco-latina.
Quali sono gli autori greci e latini che più hanno inciso nella sua formazione?
Come i Greci, amo gli opposti, la molteplicità delle cose del mondo: il riso e il pianto, la commedia e la tragedia, l’epos mitico e l’io lirico – che è una conquista tutta greca (ma cosa, di ciò che ci esalta e ci fa pensare, non è greco?). Il sentimento della misura non coincide nell’evitare gli estremi, ma nel trovare il punto in cui le prospettive si svelano reciprocamente. Ad Atene potevano provare orrore per il destino di Edipo, ma poi ridere con i comici. Amo i tragici, la forza severa e statuaria dei loro versi: «Vedo ciò che devo vedere» dice il protagonista nell’Eracle di Euripide. E ciò che deve vedere è il mondo reale, la condizione perenne dell’uomo. Ma amo anche la libertà fantastica, irriverente di Aristofane; la scultorea potenza, degna di un frontone arcaico, dei versi pindarici; il sublime carnevalesco di Plauto; la malinconica pensosità di Orazio; il duello insieme angoscioso e vitale tra saggezza e sentimento del disastro che è in Lucrezio; il pathos drammatico delle vicende sallustiane; la potente severità della parola tacitiana, che sembra a volte muoversi nella storia come la rete di un pescatore in un mare tragico e ignoto.
Che cosa sta preparando attualmente?
Credo di aver chiuso, ormai, dopo tanti anni, il mio nuovo libro di poesie, che si intitolerà Il moto delle cose, e uscirà – presumibilmente – nell’autunno 2017. In quel titolo, forse lucreziano, lascio che le forze della vita – tumultuose, sovrane, erratiche – si confrontino e si scontrino, in un agitìo di immagini e di pensieri, di ombre e di apparizioni, che rimbalzano da una sezione all’altra, ora quietandosi ora esplodendo rovinose e magmatiche. Ma al centro è la figura-cuore – luminosa e serena – di un’isola amata, in cui tutto pare, magicamente, rasserenarsi. Il libro si apre con tre poesie-prologo di ispirazione e di tonalità diverse, cui corrispondono in conclusione tre poesie in cui i temi cosmici ed esistenziali del libro si risolvono in forme immaginative molteplici e contrastanti: la luce abbagliante di una stella morta, che giunge a noi da chissà quale era remota; una visione – paurosa, fermentante – del “buio-non buio” delle origini; la celebre figura paestana del tuffatore, colto però un attimo prima del tuffo.
Può brevemente commentare la poesia inedita ivi presentata?
Rovine, trombe, quando, che occuperà una posizione significativa nella mia prossima raccolta, credo riassuma la mia idea di poesia lirica. L’improvviso irrompere, in una condizione di aurea felicità, di segni inquietanti è espresso con immagini limpide e esemplari che nondimeno sono cariche di storia e di pensiero: trombe, arco, stame, sfinge evocano qualcosa che è certo nella memoria di ciascuno di noi, e che derivano dalla doppia cultura, classica e cristiana, nella quale ci siamo formati: sono insomma parole-mito, in cui si condensa intuitivamente, quasi fulmineamente, la nostra idea di vita e di destino. Anche l’ambientazione, domestica e mitica insieme, della scena porta in sé echi profondi: l’eden biblico, il giardino delle Esperidi, i giardini epicurei. La poesia non è emozione, ma un’esperienza in cui si fondono moti di pensiero, percezioni di vita quotidiana, echi di dottrine, sogni, visioni. Tutto questo in una lingua che deve affondare nell’elementare ruvidezza del parlato e insieme distanziarsene: non so se «s’incavedia» sia un neologismo, ma certo chiunque abiti in un palazzo dell’ultimo secolo, sa cosa sono i cavedii, e quale fitto di buio e di paure in esso si concentri. Le parole della poesia sono sempre sensibili, dotate di una loro materia fisica, concreta, con tutte le risonanze, le scie di luce e di ombra che ogni oggetto – e ogni nome – inesorabilmente porta con sé.
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Rovine, trombe, quando
chi siede, in un giardino
di pensieri e di aranci, sente
all’improvviso un urto, scricchia
il terso dei cieli, s’incavedia
il lume della vita – arco, stame
sfinge
Giancarlo Pontiggia