Due libri dedicati alla Cherchi
A proposito di Grazia
Ricordo della “zarina”, la grande editor recentemente celebrata da un convegno a Milano. Con quel suo «certo modo di stare al mondo» esercitava un «potere affettuoso» su autori e amici per cui era un punto di riferimento indispensabile. In anni in cui l’editoria non era un’industria ma ancora una grande famiglia…
Sono trascorsi già 21 anni da quando Grazia Cherchi ci ha lasciati, anni che paiono una eternità. «Con chi parleremo adesso?», si domandava commosso, disorientato, Giovanni Giudici il 23 agosto 1995, durante l’orazione funebre. «Sentiamo Grazia» era sempre stata la soluzione sulle bocche di tutti, la panacea per ogni perplessità. Lo penso tuttora io stessa, a volte provo davvero l’istinto di chiedere un consiglio alla Cherchi. Lei, che era soprannominata “la zarina”, e che non esitava a graffiare coi suoi giudizi severi, era temuta o amata. Non c’erano vie di mezzo. Sicuramente rispettata da tutti. Era una amica insostituibile, leale, generosa; sapeva ascoltare più che farsi ascoltare. Possedeva una qualità peculiare e rara: la capacità di far incontrare, di mettere insieme le persone che per lei valevano, nel lavoro, come negli affetti. Il fattore umano, era questo in lei primario, irrinunciabile: ancora contava in quei tempi d’oro dell’editoria che abbiamo avuto la fortuna di vivere accanto a un editore come Mario Spagnol. Fu lei a segnalarmi e Spagnol le diede retta, mi assunse subito, dopo un breve colloquio, nel 1992. Devo a Grazia i miei anni in quello che allora si chiamava Gruppo Longanesi, poi Gruppo GEMS, anni vitalissimi, ricchi di esperienze, anni di intuizioni e di creatività, non sfiorati dalla crisi che avrebbe cambiato il modo di lavorare di tutti, trasformando ogni casa editrice da famiglia a impresa industriale.
Di recente si torna a parlare di lei: due libri la celebrano e la raccontano, due libri ugualmente preziosi, scritti con garbo, direi quasi con l’affetto postumo di chi non ha avuto modo di incontrarla, tuttavia l’ha conosciuta profondamente grazie a occhi, orecchie e antenne sensibili, e l’entusiasmo dei giovani che non si arrendono alla desolazione di questa temperie e vanno alla ricerca di miti, di esempi, di protagonisti che hanno fatto grande l’editoria d’antan. Michela Monferrini, nata a Roma nel 1986, saggista, narratrice, finalista al Campiello Giovani e al Premio Zocca Giovani, le ha dedicato un volumetto della collezione “le farfalle” di ali&no editrice (2015), dal titolo Grazia Cherchi. Subito affascinata da questa globetrotter della cultura (cosi l’ha definita Clara Sereni), ha composto un ritratto a più voci, un viaggio nel mondo di Grazia attraverso le testimonianze di amici, scrittori, giornalisti, poeti, critici letterari. I nomi fanno un’epoca, un pugno di anni formidabili, di avventure della mente e del cuore: Baricco, Benni, Bellocchio, Berardinelli, Cottinelli, Fofi, Fortini, Lerner, Maggiani, Riotta, Lalla Romano, per citarne solo alcuni fra i tanti.
Se da tutti, nello scorrere delle pagine, emerge di Grazia «un certo modo di stare al mondo», da lettrice formidabile, da editor, scopriamo che, grazie soprattutto a quel «potere affettuoso» (Berardinelli) con cui lei sapeva prendersi cura dei suoi autori, soltanto quelli che amava e le piacevano veramente, la Cherchi diventava progressivamente una persona che in sé riuniva diverse attitudini e qualità, una sorta di tuttofare: «non solo editor ma anche un po’ agente letterario, non solo agente ma anche un po’ ufficio stampa: tutto in una sola persona». Sapeva andare a caccia di libri buoni, necessari, con il fiuto di un cane da tartufo, sui libri degli altri esercitava una vera e propria arte maieutica, restia invece a parlare dei propri lavori, con il medesimo pudore che metteva nei sentimenti. Dei suoi amici voleva sapere tutto, capace di raccogliere confidenze, dispensare consigli e cure; di sé non parlava mai.
Giulia Tettamanti, nata a Como nel 1989, ha scelto Grazia Cherchi, sottotitolo Una romantica donna emiliana, partigiana dei lettori, come argomento della tesi di laurea in Statale, e ne ha tratto di recente una pubblicazione per le Edizioni Unicopli, Tuffarsi nell’altrui personalità, focalizzando in modo particolare la sua analisi sul lavoro di editor. Come Michela Monferrini, anche Giulia Tettamanti si è affidata alle testimonianze di quanti conobbero la Cherchi, lavorarono con lei, e strinsero un patto di amicizia con Grazia, irrinunciabile tanto più nella condizione di solitudine che caratterizzava la vita di questa donna guerriera, eppure apparentemente così delicata e fragile. Grazia ha lottato per la difesa dei suoi principi, prima fra tutti la libertà di giudizio, l’affrancamento da ogni vincolo con case editrici, per sentirsi libera di commentare, applaudire o stroncare, refrattaria a giochi di potere, conventicole, avversaria tenace di premi, classifiche, passerelle televisive, in sostanza nemica di una industria che sfornava prevalentemente best seller. Per sua fortuna non ha potuto vedere la crisi che oggi sta divorando l’universo editoriale, stretto fra la morsa del calo dei lettori, calo delle vendite, drammatica, dilagante chiusura delle librerie.
Grazia Cherchi metteva passione, abnegazione nel proprio lavoro, una sorta di Max Perkins al femminile se può valere per lei un paragone simile (Perkins editor di Hemingway, Fitzgerald, Tom Wolfe, come si è visto nel recente film Genius). Certamente animata dallo stesso sentimento del testo e insieme dal sentimento umano per gli scrittori ai quali dedicava una attenzione unica, totale, fondata sulla passione e sull’intelligenza emotiva. Lei, «una testa pensante, impetuosa», che tanto si dava, armata di matita e di buone regole (sfoltire, eliminare, spostare, denudare la scrittura sino a ottenerne un diamante puro, privo di scorie), che costringeva autori e amici a interminabili sedute di lettura ad alta voce per “sentire” e cancellare dissonanze, incongruenze, grumi nella scrittura, in favore di una musicalità armoniosa, fluente, apparentemente semplice, non ha mai voluto declinare il decalogo della propria arte. Sappiamo che per lei l’editing era «perizia, duro e attento lavoro di rifinitura e revisione» nel rispetto del testo: se decideva di prendere in carico qualcuno, doveva percepire una comunanza di sentimenti e di sguardo, una sintonia empatica. Grazia, che tanto amava la commozione trattenuta di Bilenchi e il suo stile mirabilmente laconico, asciutto, terso, sapeva abdicare al proprio gusto, alla propria “voce” per lasciare spazio all’autore, limitandosi a segnalare, suggerire, ombra silenziosa, presenza gregaria e discreta alle sue spalle. Interpretando al meglio un mestiere fatto su misura per chi non ama apparire, Grazia Cherchi ha distribuito intorno a sé doni, tesori, è stata un esempio singolare, generoso, di coerenza, coraggio, intransigenza. E queste due giovani studiose, Michela e Giulia, accomunate da un analogo entusiasmo per una storia editoriale che vale ancora la pena di esplorare, raccontare, consegnare alla memoria delle generazioni a venire, meno fortunate di noi che l’abbiamo vissuta in presa diretta, hanno il merito di aver saputo “ascoltare”, con rara sensibilità e acume, ricordi, immagini, vibrazioni, consegnandoci un ritratto ancora vivo e parlante.