Roma, una città immobile
Sfida a Tor di Valle
Tra costruire con criterio per il bene comune, cercando di evitare sprechi, e saper dire solo di no c'è una bella differenza. Come dimostra la storia del possibile, nuovo stadio (privato) della Roma
Tor di Valle è percorsa da una rete di strade asfaltate, che portano alle scuderie, a casupole, intorno c’è un verde intricato e selvaggio, in una radura si erge ancora, nella desolazione, la tribuna coperta del vecchio ippodromo abbandonato. Dieci, forse quindici anni fa, ci fu uno spettacolo con i cavalli di Bartabàs, ma già allora la scena era allestita in un tendone, non nell’ippodromo. La ciclabile del Tevere lambisce l’area, i rovi danno ospitalità a invisibili senza fissa dimora. Nel 2007 un ciclista fu aggredito, nelle ore serali, e morì in seguito alla percosse; nel 2016 una giovane ha partorito in una stalla abbandonata, due carabinieri arrivati alla richiesta di aiuto del compagno di lei si improvvisarono ostetrici .
Il sopralluogo si è svolto a ottobre 2015, quando era già iniziato lo show down che avrebbe portato allo scioglimento della giunta Marino e alle elezioni. Avevo organizzato io la gita, coinvolgendo l’Osservatorio sullo Stadio di Tor di Valle, poiché lavoravo allora come addetto stampa dell’assessore alla Trasformazione urbana Giovanni Caudo. As Roma mise a disposizione il pullman, vennero i geologi, l’ingegnere che coordina il lavoro per la Lend Lease, mega società internazionale di progettazione. L’ultima fase della preparazione di quella passeggiata fu tempestosa, quando avevamo iniziato a lavorarci non sospettavamo che la giunta stesse per cadere. L’Osservatorio (ufficializzato da un protocollo fra assessorato, associazioni e municipi), a cui partecipano tuttora i cittadini dei municipi IX e XI di Roma, è nato sulla base dell’idea che gli abitanti che vivono a ridosso di Tor di Valle conoscono bene i problemi, i punti dove il traffico si imbottiglia già adesso, senza lo Stadio. Un cantiere di quelle dimensioni, inoltre, potrebbe provocare problemi alla viabilità anche nella fase di allestimento. Tutte questioni su cui i più titolati a esercitare il controllo, a indicare problemi che il team internazionale di progettisti potrebbe non vedere, sono proprio gli abitanti dei quartieri limitrofi. A Decima, non a Tor di Valle, c’è il fosso Vallerano che talvolta inonda il quartiere e che dovrà essere messo a posto a spese dei proponenti. La preoccupazione del Comitato di quartiere era la possibilità di un effetto stantuffo provocato dalle fondamenta dello stadio. Gli ingegneri risposero di no, che questo rischio non c’è, che il terreno su cui si costruisce è buono, migliore di quanto si aspettassero, e che le opere di fondazione non sono tali da produrre preoccupazioni di questo genere.
La vicenda dello stadio di Tor di Valle – il progetto è andato in questi giorni all’esame della conferenza dei servizi – è paradigmatica: racconta quanto demagogico e sganciato dai fatti sia il dibattito pubblico nella Capitale d’Italia, quanto utile sia la demagogia a mascherare di buone intenzioni i poteri di veto che paralizzano Roma. Quanta confusione vi sia nella opinione pubblica fra progetti e investimenti privati e progetti e investimenti pubblici. E quanto lontana dal vero fosse l’accusa di immobilismo alla giunta Marino. Al contrario, il progetto dello stadio privato della Roma è stato un vero banco di prova per il governo della città e si è trasformato in una sfida per la società presieduta da James Pallotta.
Gli stadi privati sono da qualche anno la nuova frontiera del business calcistico, le società britanniche, tedesche o iberiche hanno quadruplicato gli introiti lasciando al palo la serie A della penisola, con l’eccezione parziale della Juventus. Un segmento privato, per quanto importante e popolare dell’economia. Ma non sembra averlo capito l’attuale assessore all’Urbanistica Paolo Berdini che, appena insediato, chiedeva: «Come giustifico un investimento di questa portata nelle periferie abbandonate di Roma?». Semplice: non sono soldi tuoi, non sono soldi pubblici, come invece lo sono quelli con cui sono state semi-costruite e abbandonate le Vele di Calatrava. Sono investimenti privati finalizzati a far aumentare di valore la società calcistica.
Il governo, con la finanziaria 2014, ha introdotto nella legge italiana le regole per costruire gli stadi privati: l’impresa deve essere sostenibile, dal punto di vista economico-finanziario e dal punto di vista ambientale. Spetta ai comuni esaminare e autorizzare, se non lo fanno verrà nominato un commissario.
Detto fatto, la Roma presentò lo studio preliminare a Marino nel marzo dello stesso anno, il terreno scelto dal privato è in gran parte di proprietà della società del costruttore romano Luca Parnasi, l’onere straordinario da tradursi in opere pubbliche era, nella proposta originaria, calcolato intorno al 10%. La patata bollente arrivò sul tavolo di Giovanni Caudo, che di calcio non si interessa e che certo, da assessore alla Trasformazione urbana, non aveva messo fra le priorità la costruzione uno stadio. Punto 1: Roma non doveva farsi scippare la decisione, doveva essere il Campidoglio a decidere. Punto 2: l’investimento privato è legittimo ma quale sarebbe stato l’impatto dell’infrastruttura sportiva sulla vita della città? Punto 3: quel misero 10% era proporzionato alla entità del business? A Londra ciò che spetta alla città per operazioni di valorizzazione privata è commisurato all’entità dell’operazione.
Lo Stadio diventa una sfida, per l’Amministrazione e per i proponenti. Le condizioni poste dal Ccomune di Roma per dare all’operazione la copertura della pubblica utilità fanno lievitare gli oneri per le opere pubbliche al 27% dei costi totali (adeguamento del trasporto su ferro che consenta di trasportare 30.000 dei 60.000 tifosi che la capienza dello Stadio prevede, raddoppio e unificazione della via del Mare e della via Ostiense, ponte carrabile e ponte pedonale, svincolo dalla Roma-Fiumicino, messa in sicurezza del fosso di Vallerano), opere pubbliche per 195 milioni contro i circa 50 previsti inizialmente a cui vanno aggiunti 115 milioni di opere standard, come i parcheggi. Più di 300 milioni di patrimonializzazione pubblica a fronte dei quali l’Amministrazione riconosce un aumento di cubatura, dai 358mila metri cubi già previsti dal PRG per l’area a verde attrezzato a 770.000, circondati da circa 40 ettari di parco fluviale. Accanto allo stadio sorgerà un business center, le famose torri di Libeskind destinate a uffici (le norme escludono esplicitamente il residenziale), contrafforte della sostenibilità economica dell’operazione. Inoltre la delibera di interesse pubblico contiene una condizione tassativa: lo stadio non potrà aprire se non saranno completate le opere pubbliche, le cubature in più verranno ridotte se altri soggetti (la Regione, lo Stato) decideranno di finanziare le infrastrutture di trasporto. La delibera di interesse pubblico non è urbanistica, non concede diritti edificatori, che dovranno essere oggetto di una variante che l’Assemblea capitolina deciderà alla conclusione positiva della conferenza dei servizi. Per capire: se oggi, la nuova maggioranza decidesse per il no, il Campidoglio non si è obbligato a pagare alcuna moneta urbanistica. Invece, assessore e sindaco si fecero un punto d’onore di rispettare i tempi secondo legge e secondo standard globali: a dicembre 2014 la delibera di interesse pubblico era approvata.
Ignazio Marino aveva fretta di veder andare in porto qualcuno dei progetti messi in cantiere, gli eventi hanno poi dimostrato che la sua fretta politica era giustificata, anche se lui stesso non sapeva che il tempo non gli sarebbe bastato. Mise la dead line per la presentazione del progetto al 15 giugno 2015. E il 15 giugno 2015 arrivarono negli uffici enormi scatoloni contenenti i volumi del progetto. In stile americano: persino le viti e i giunti erano disegnati, e i costi calcolati. Eppure i tempi erano stati troppo stretti persino per quella società di progettazione megagalattica che aveva ingaggiato specialisti in tutto il mondo. Soprattutto in alcune parti relative alla trasportistica, alcune soluzioni erano abbozzate ma non compiutamente risolte, come puntualmente hanno osservato i tecnici del dipartimento urbanistica del Comune di Roma. Però la consegna di quei faldoni dava informazioni di non poco conto: la mole di quel lavoro indicava l’impegno di investitori internazionali. Nella visione dell’assessore Caudo, che come dicevamo non è un tifoso, questa opportunità era la cosa più interessante, una quantità ingente di capitali privati e di rischio investiti nella città eterna poteva significare molto per l’economia boccheggiante della Capitale, abituata al canale sgocciolante dei trasferimenti pubblici, e per gli equilibri da rito romano dove sono appunto le casse dello Stato a finanziare opere che non vengono mai finite.
Nel dibattito pubblico si sono trovati gli uni accanto agli altri, pregiudizialmente contro, il quotidiano della capitale, il Messaggero, in versione ambientalista e settori di opinione che aborriscono senza se e senza ma il cemento.
Ora, mentre la Regione Lazio svolge un ruolo tecnico, di regia nella conferenza dei servizi, il boccino politico torna al Campidoglio. Potrebbe dire no o sì. Il rischio maggiore è che dica “ni”, ovvero che autorizzi lo stadio ma tagli le cubature che servono a finanziare le opere pubbliche, le quali dovrebbero essere realizzate con denaro pubblico. È una soluzione che alleggerirebbe di un gran peso economico l’As Roma, riporterebbe il contributo straordinario al consueto 10 %, ma avrebbe il difetto tipico delle operazioni immobiliari nella Capitale, profitti ai privati e costi pubblici al paese. Oppure ai cittadini, che rischiano di essere sommersi dagli ingorghi nell’area del nuovo stadio.
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Il tema dello stadio sarà oggetto del prossimo appuntamento “Conversazioni su Roma” nella sede di via Madonna dei Monti 40 della facoltà di Architettura, Roma Tre.