A proposito de «La meccanica del pane»
Poesia come visione
Ritratto di Michele Caccamo, un poeta civile che non si fa illusioni sul destino dell’umanità e dell’universo: l’uomo è capace di distruggere, se stesso e la Natura e l’aria, sia in tempo di pace che in tempi di guerra
Io sono un narratore e tuttalpiù un critico di narrativa, di romanzi, e mi imbarazza un po’ presentare l’opera di un poeta. Non mi sono mai occupato criticamente di poesia, infatti. Sono un lettore di poesia distratto, episodico, incostante e molto idiosincratico. Scrivo anche io dei versi, ma sono versi di uno scrittore prestato alla poesia, per così dire.
Invece Michele Caccamo è un poeta vero, un poeta a tutto tondo. Per lui il linguaggio (magico, visionario, ellittico) della poesia è così naturale da sembrare quello suo di tutti i giorni, quello quotidiano, insomma la sua prima lingua. Dunque, perché ho accettato di farlo, di parlare de La meccanica del pane poesie 2010-2015 di Michele Caccamo, Prefazione di Gian Paolo Serino, editore Castelvecchi? Banalmente, perché questo libro mi ha coinvolto, perché Caccamo tratta (ragiona su) temi che mi sono cari, perché sento la poesia di Caccamo, in una parola, empatica con quello che cerco di fare io in un ambito diverso ma contiguo, quello del romanzo. Lo sento come un compagno di viaggio.
Caccamo ha avuto recentemente una biografia difficile, accidentata, tormentata, come è noto, ma vorrei riuscire a leggere la sua poesia senza sovrastrutture di qualunque tipo, perché la sua poesia non ne ha bisogno. Pur sapendo, peraltro, che alcune bellissime liriche contenute in questo volume che ne raccoglie oltre 300 scritte negli ultimi 5 anni, nell’ultima parte, parlano esplicitamente del carcere, della reclusione.
La poesia di Caccamo, per come l’ho letta io, possiede più anime, come mi avventuro a spiegare. È anzitutto “poesia civile”. Una “poesia civile” che si muove in uno spazio filosofico, etico, allo stesso tempo “marxista” e “cristiano”, sulla scia di Pasolini, forse, e di altri – tanti altri – non solo italiani!
Dico marxista e cristiano e non lo si ritenga un ossimoro. Nelle sue poesie puoi trovare, per intendersi, magari anche in una stessa composizione, le parole “resurrezione” e “rivolta”. Non è tanto per lui un’attrazione estetica per la ritualità, per il fascino dell’iconografia cristiana mi sembra – ma una necessità di assoluto e di trascendenza, senza mai dimenticare però il destino di morte e distruzione che stiamo vivendo, senza dimenticare gli orrori di Guantanamo, senza dimenticare, come scrive mirabilmente l’autore in questi versi che compaiono quasi a inizio della raccolta:
L’occhio passa sulla bellezza/fino alla prossima guerra/o a un altro disonore/verranno presto meno tutte le braccia dei bambini/quella brezza della marina/già possiede l’acciaio/la schiuma affoga i pesci/noi siamo al tramonto/e tutto cadrà nel buio.
Caccamo non si fa illusioni sul destino dell’umanità e dell’universo; l’uomo è capace di distruggere, se stesso e la Natura e l’aria, sia in tempo di pace che in tempi di guerra, e non manca certo di pietas la sua visione degli ultimi, di chi vaga nei mercati “dopo che hanno tolto i banchi” per rimediare qualcosa dal “pattume messo a terra”, in “quell’orto bellissimo di frutti abbandonati”. E chi è quel poveraccio, quel derelitto, se non “un testimone di Cristo”, se non il Cristo stesso?
Ma il Cristo per Caccamo oggi sono anche i migranti che affogano – in quantità bibliche – nel Mediterraneo, cioè “gli uomini che si aggiustano nel mare” che “stanotte saranno tutti morti”, “loro che sono figli davanti a Dio”, perché oggi “il mare è una città profonda”.
La poesia di Caccamo sembra scaturire da un rigoroso regime di tagli, da un’operazione preliminare di asciugatura all’osso, di sottrazione, di eliminazione di nessi e tentazioni didascaliche, in questo, ma anche per una certa vena anarchica, e felicemente epigrammatica, mi ha ricordato certe poesie di Eluard, ripescate nel seno delle mie disordinate letture. Ma chissà quanti altri nomi andrebbero fatti? Brecht, Lorca, Fortini, Alfonso Gatto….
Fateci caso, l’inizio di molte di queste poesie è in qualche modo un non inizio. Voglio dire che gli incipit suggeriscono spesso l’idea di un discorso già iniziato, come fossimo entrati d’improvviso nella testa di qualcuno che asserisce, prega, impreca, o ragiona, o di qualcuno impegnato in una conversazione intima (magari con un compagno di prigionia, ipotizzo) – insomma ci si sente nel corpo di un “flusso”. Come per esempio nei seguenti due incipit: “sono gemme per i soldati/ancora utili per gli esplosivi…”, oppure qui “e a noi tocca finirla/con le somme smisurate…”. Un’impressione forse accentuata anche dal fatto che Caccamo non usa punteggiatura (né maiuscole).
Dicevo di Eluard. Per esempio la bellissima poesia “Morire” contenuta nel Le livre ouvert di cui riporto qualche verso iniziale nella traduzione di Franco Fortini: «Né un lamento più né un riso/L’ultimo canto è piombato/sui campi informi e neri/Solitudine magra di fianchi/Matrigna dei persi tesori/Ci son muri soltanto per me…».
Per questo non mi meraviglio quando leggo quello che ha scritto di Caccamo La Capria, critico d’eccezione, quasi dieci anni fa, nella prefazione a La stessa vertigine, la stessa bocca, Manni, Lecce, 2007: «Ma conosciamo – da sempre – il deliquio della parola di Michele Caccamo, quello stato di grazia intermittente che è solo dei poeti, e in specie dei poeti visionari e metafisici come lui, che hanno una “malinconia rarefatta” e una loro “musica nascosta”».
Poeta visionario e metafisico, suggerisce dunque lo scrittore napoletano. È un’annotazione importante che ci conviene tenere a mente. Qualcun altro, Augusto Benemeglio, ha parlato, in un suo saggio-presentazione sul sito La poesia e lo spirito, di “cristianesimo interrogante, tradito”- aggiungendo «Ma già in questa vita, dice Caccamo, siamo tutti su una barca di dannati, e non abbiamo altro porto che quello dell’inferno o del Nulla».
Un cristianesimo pessimista dunque, e un marxismo non da meno, come in questi versi trascinanti: «e a noi tocca finirla/con le somme smisurate/ci siamo dati da fare nelle macchine/nelle pulegge che ci hanno sollevati/in verticale appesi per il guanto/come le capre del fossato/e ancora all’una del giorno/di cosa odorava un panino….», versi nei quali senti il fiato della fatica e dello sfruttamento quotidiano, «voi ci volete troppo ridenti/messi in fila verso la morte». Dove quel voi è rivolto forse a tutti i potenti della terra, a tutti coloro che hanno in mano la leva del comando, a tutti coloro che sfruttano e offendono gli uomini e il paesaggio.
Forse è proprio nel sentimento della pietas che marxismo e cristianesimo si incontrano nella poesia di Caccamo. Riporto ancora dei versi permeati di pietas con la tremenda e cruda forza di quel dettaglio anatomico un momento prima della chiusa definitiva, chiusa che pare un’iscrizione tombale: «e la madre gli era appena morta». Ma leggiamola tutta.
c’è un odore di gomma
consumata sulla strada
noi siamo in una sala d’attesa
o come la chiamano in un viale
nessuno ha un appuntamento
neanche la vecchia Lola
che tiene le calze coi fermagli
era una luccioletta un fanciullo
violentato al piccolo porto
è stato il primo a uscire
all’accensione dei fari
ed era perfetto come una donna
una candida luna adorata
gli hanno lasciato il sangue nel culo
e la madre gli era appena morta
Qui ci senti dentro fatalmente Pasolini, e certe immagini filmiche a tinte forti di Fassbinder.
Non mi meraviglia neppure il fatto che Caccamo abbia scritto un libro a quattro mani con Franz Krauspenaar, bravissimo poeta-romanziere contemporaneo e amico, assai diverso da lui, ma in qualche modo affine per la prepotente e condivisa vocazione poetica.
Caccamo è dunque – lo abbiamo visto – già da queste annotazioni e da questi esempi, un “poeta civile”, interessato al destino degli ultimi, dei poveri, dei condannati, dei reclusi, dei perseguitati che soffrono per causa di giustizia, diciamo con una citazione evangelica, dei soldati sacrificati nelle guerre, dei torturati a Guantanamo o nei Gulag, dei ragazzini “senza braccia” di Baghdad o di Gaza, di tutti gli “affamati” del mondo (in una poesia si parla di “patria degli affamati”), della dignità e forse della necessità storica della Rivolta sociale, ecc. Ma è anche, come ha intuito La Capria, un “poeta metafisico”, che continuamente si interroga, anche oscuramente, anche esotericamente, sul senso della vita e della morte rispetto all’esperienza umana e trascendente del Cristo, e all’intera parabola del cristianesimo; è un lirico ma è anche un antilirico in certi passaggi in cui l’io poetico ricama ragionamenti metafisici, sapienziali. Insomma, Caccamo è un poeta, un artista, polivalente, abitato da diverse forze, da diverse anime, anche fra loro in opposizione. La controcopertina parla a ragione di “sapienza artigianale”: Ogni artista vero deve essere prima di tutto un bravo artigiano, umilmente e quotidianamente impegnato a lavorare di lima e di scalpello su ogni verso, su ogni parola. E’ in ciò che si esprime primariamente l’“impegno civile” di Michele Caccamo. Voglio concludere con alcuni mirabili versi sulla reclusione, sull’esperienza carceraria, di cui forse si è parlato troppo poco.
io sono un poeta violato/dal rumore dei passi/dei detenuti soprattutto/del loro contatore tarato/su anni mesi giorni minuti fine/si dichiarano per cognomi/e ne è compresa la supremazia/o una concezione simile/loro hanno un cuore/ma per aspetti diversi/il carcere è anticristiano/debitamente custodito per farci abdicare/da ogni principio umano/adesso ha anche il mio corpo/le mie corde vocali/Io assorbo l’epidemia/che ha nelle braccia/faccio eco all’accompagnamento/ma tutte queste ve lo dico/altro non sono che frasi morte.