Visto al San Ferdinando
L’ultimo presepe
Applausi (e qualche contestazione) a Napoli per "Natale in casa Cupiello" di Eduardo secondo Antonio Latella. Uno spettacolo che scompone la tradizione e la ricostruisce in chiave brechtiana
Chi non conoscesse Antonio Latella come un uomo ancora giovane, dopo la visione di Natale in casa Cupiello di Eduardo De Filippo, nella riscrittura di Linda Dalisi, crederebbe che questo spettacolo fosse una sorta di personale testamento teatrale. In primis, la cultura di pratico storico del teatro unita a tutto quello che fino ad oggi Latella ha ideato, costruito e diretto. Sono venuti a trovarlo, proprio come i Sei personaggi tutti gli autori che nel suo lungo percorso prima di attore e poi di regista ha conosciuto. Bertolt Brecht nel chiaro richiamo a Madre Coraggio e i suoi figli non solo nell’espediente scenico del carretto trainato da Monica Piseddu, qui Concetta Cupiello, quale metafora di donna che assorbe su di sé i problemi e i segreti della famiglia cercando di mantenerla unita, ma anche nell’uso di una recitazione epica di contro allo stile psicotecnico di Stanislavskij.
Tripla analisi. Primo: di tipo puramente recitativa. Latella ci ha abituati alla non immedesimazione dell’attore nel personaggio, e più in generale, dell’intera mise en place teatrale nelle storie narrate, poiché il distacco diventa funzionale al messaggio che vuole trasmettere e cioè non più realismo e corrispondenza tra l’atto del recitare e recitato, ma la sottolineatura al contrario della rappresentazione e dunque dell’artificio. Il teatro è artificio. Secondo: di tipo politica. Il “suo” teatro non è più luogo di mistificazione, ma di esplicitazione dei meccanismi recitativi. L’obiettivo ultimo è raggiungere il massimo grado di consapevolezza e capacità critica degli attori e degli spettatori. Il teatro è critica. La verità non è la perfetta aderenza dell’attore al personaggio, ma si raggiunge tramite la critica che l’attore stesso fa del personaggio e del suo contesto, tramite la recitazione: è la “realtà socialmente utile” di cui parla Brecht in alcuni suoi passi. Terzo: di tipo esagerata. Il carattere distintivo del teatro di Latella è una recitazione ‘esagerata’ in cui il tono delle voce, la gestualità e l’espressività degli attori esprimono l’artificiosità, e dunque l’impossibilità dell’immedesimazione. Il teatro è esagerazione.
Ecco primo e secondo tempo fusi presentare i 12 pastori e apostoli e attori schierati alla Chorus Line in vesti e maschere (di Fabio Sonnino) alla Eyes Wide Shut di Stanley Kubric, che toglieranno, le maschere, quando verranno chiamati a recitare annunciati dalle citate didascalie comprensive di segni diacritici.
Kantorianamente immobili. Senza alcuna inflessione vocale, né messinscena.
L’unico vestito in stile americano Anni ’50 è Francesco Manetti, qui Luca Cupiello, che è anche l’unico che ha una gestualità che lo contraddistingue dall’immobilità succitata: scrivere. Scrive tutto ciò che viene e sta per avvenire. Luca Cupiello è Eduardo stesso. Elemento scenico (di Simone Mannino e Simona D’Amico), una gigantesca stella cometa formata da crisantemi gialli, simboli di morte – in Italia, perché la loro fioritura coincide col periodo dei morti; e di vita e rinascita, in Oriente -. Non solo, ma leggenda vuole che strappare un crisantemo significa augurare lunga vita alle madri. E difatti, Valentina Acca, qui Ninuccia, figlia dei Cupiello, in un momento di ira contro la madre che le impone di reprimere la sua passione per Vittorio Elia, qui Giuseppe Lanino, e resti fedele a suo marito Nicolino, qui Francesco Villano, si scaglia contro la stella strappandone i fiori. Concetta dalla collera sviene. Tutta la famiglia prega la Madonna che rinsaldi. Ma il crisantemo, dicotomia allora di morte e rinascita, diventa il simbolo di Latella stesso che s’auspica la morte di un teatro vecchio e pirandellianamente imborghesito per un teatro pirandellianamente e pinterianamente smascherato, nudo, crudo e vero.
La costruzione recitativa prosegue con salti bruschi da una scena all’altra senza apparente connessione logica. E poi luci (di Simone De Angelis) molto forti, musica (di franco Visioli) assordante, qui underground, sono tutti espedienti atti a produrre l’effetto di straniamento che serve a tenere attivo lo spettatore, richiamandone in continuo l’attenzione e, dunque, impedendone l’immedesimazione.
Ecco il finale primo atto in cui una pasoliniana orgia unita ad una fassbinderiana borgia di animali di pezza, quali sacrifici natalizi, vengono gettati e rigettati nella teca del carretto trainato ossessivamente da Concetta, con Lucariello che imperterrito all’interno continua sulle vetrate la sua lunga stesura. Cala la stella cometa, risalita in americana per dare spazio al caos danzante. Altro riferimento: Nietzsche. «Bisogna avere un caos dentro di sé, per generare una stella». Il caos scenico di Latella è ciò che si contrappone all’ordine costituito dalla morale, statico, rigido, se non nella misura in cui chi guida il gregge è tenuto ad adattarlo ai luoghi e ai tempi. Altra metafora e riferimento alla crisi politica e teatrale. Il caos – qui sempre atto rivoluzionario contro vecchi regimi precostituiti – serve a svegliare l’uomo dal torpore in cui è caduto. Zarathustra dice «Il raggio d’una stella splenda su di noi. Rinasciamo».
Il teatro di Latella richiede uno sforzo notevole agli attori che devono rimanere sempre desti e vigili, e mai cadere nel flusso della narrazione. Tutto ciò che quindi in scena possa servire a questo scopo viene enfatizzato prima mnemonicamente: recitazione in terza persona, scambio delle parti tra due attori (con l’osservazione reciproca), ripetizione delle didascalie per rinforzarne l’effetto di artificiosità; e poi fisicamente. Dall’immobilità a movimenti apparentemente sconnessi in realtà ripetuti in nietzschiani eterni ritorni di immagini accompagnate dalla voce originale di Eduardo che ripete in maniera ossessiva: «Mò miettete a fa ‘o Presebbio n’ata vota…».
Tutto è stravolto. Tutto è distrutto. Le verità nascoste sono venute a galla. Lucariello è esasperato dal non compiacimento del figlio Tommasino nei riguardi del suo presepe; dalle continue diatribe che il giovane, dall’identità sessuale non ben definita, ha con lo zio Pasquale, qui Michelangelo Dalisi, e soprattutto dall’infedeltà di Ninuccia verso quel buon uomo di Nicolino.
Concetta si riprende. Luca ha un ictus. Sipario. Lo spettacolo sarebbe anche potuto terminare così. C’era già tutto. Applausi. L’intervallo dura 20 minuti. Il secondo tempo dura 40 minuti.
Il richiamo alla desimoniana ‘Gatta cenerentola’ – prima opera lirica in napoletano – è un’ennesima critica a ciò che impedisce Lynchianamente di aprire la mente all’accettazione dell’innovazione teatrale, rompendo gli schemi definiti ‘chiusi’, tipici del genere melos. Gli attori – completano il cast: Emilio Vacca, Alessandra Borgia, Annibale Pavone, rispettivamente Rita, Maria e Carmela gente del quartiere, – divengono Jenetiane e brontiana corale, in gonne lunghe, ampie e nere, intonano suoni e canti che fanno da controcanto al lirismo di Leandro Amato, qui il portiere Raffaele, che come l’Ariel Shakespeariano cala dall’alto con un’imbracatura e invade maestosamente la scena; al canto disperato dell’amante Vittorio; ed a quello del dottore, il contraltista Maurizio Rippa che intona in cristallina voce, nonostante due ore intere di fermo, l’aria rossiniana di Basilio, “La calunnia è un venticello” come aspra critica dell’ambiente teatrale.
Napoletano in primis, che proprio a Latella – Nemo propheta in patria – non ha mai riconosciuto la genialità e l’importanza degli intenti. (Oppure sì, ma meglio tenerlo alla larga!).
Concetta è in vesti monacali, a mo’ di madonna michelangiolesca che non oppone resistenza all’inconsueto gesto omicida del figlio verso il padre, ma anzi accoglie tra le sue braccia il corpo inerme del marito ucciso. È tempo di rompere il cordone ombelicale tra padre e figli; di scarti generazionali. Di rinascita. Sarà Tommasino detto Nennillo (in scena Lino Musella) a creare un nuovo presepe. E Nennillo è proprio forse lo stesso Antonio Latella.
Il falso bordone fa da tappeto sonoro alla visione di Lucariello seminudo, atrofizzato e agonizzante nella mangiatoia di un mondo presepiale, distruttogli dall’eutanasia praticatagli. Con la sua morte, muore tutto: famiglia, società, rapporti umani. Muore il teatro inteso come palcoscenico per dare vita ad un teatro inteso come verità. Spazio alla scoperta, qui simboleggiata da una scimmia in peluche forse figlia del gorilla protagonista di Francamente me ne infischio, altro successo di Latella, e nel quale il regista vede come i migranti l’America intesa in chiave di scoperta del nuovo mondo, scoperta cioè di un nuovo tipo di ‘fare’ teatro.
Natale in casa Cupiello, in scena proprio al San Ferdinando, la casa di Eduardo ha creato una spaccatura nel pubblico. C’è chi si è alzato a metà del primo atto; chi voleva gridare allo scandalo e alla vergogna per avere usurpato un grande ed intoccabile classico; e c’è chi applaude, ma non è dato sapere se con cognizione o non. A Latella non interessa il benvolere del pubblico. A Latella interessa il pubblico in quanto possibilità performativa del teatro. A Latella interessa scandagliare le coscienze. Ed è proprio questo che, nel bene e nel male, è accaduto.
Antonio Latella ha vinto, e con lui tutti i bravissimi attori.
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La foto accanto al titolo è di Brunella Giolivo.