A proposito di “Ammettiamo che l'albero parli”
L’inferno di Giosuè
Claudio Marrucci racconta la storia di una follia (apparente?): una discesa agli inferi di Enea e di Dante, dove si lotta contro i propri stessi demoni rivivendoli nella memoria del mondo
Ammettiamo che l’albero parli di Claudio Marrucci (Fahrenheit 451, 2016, pp. 240, 13 euro), è la storia di Giosuè, giovane scrittore e appassionato di storia, filosofia, letteratura e mitologia, il quale uccide la madre nel bel mezzo di un delirio. Tale evento diviene la chiave di volta dell’intero romanzo, che è poi un libro-mondo, in cui, come l’Odissea per l’Ulisse di Joyce, entrano l’Eneide e la Divina Commedia (quest’ultima anche nei titoli delle sezioni, mentre i titoli dei capitoli sono libri o film) come colonne portanti letterarie e strutturali del testo. L’amore per una studentessa e danzatrice, Maryam di origini ispaniche e poi quello per il poeta Davide Levi, sono invece le colonne portanti affettive. Il rapporto con i genitori diviene conflittuale nel momento in cui un rinomato psichiatra diagnostica al protagonista una psicosi maniaco depressiva. Compare spesso il doppio di Giosuè, Claudio, a presagire eventi infausti. Claudio è davvero un altro sé che è un mondo al di là della carta e attraverso lo specchio. Anche lui, come Giosuè ha una madre, un padre e una sorella e spesso i due mondi, al di qua e al di là della carta, s’invertono o comunque si mischiano.
La scrittura di Claudio Marrucci è coltissima e volutamente rizomatica, nell’ultimo capitolo vengono citati Deleuze e Guattari: «Ma se esistesse un dio, che contenga tutto, finanche se stesso, dove poggerebbero le sue membra? Una è l’immagine, anche se infiniti sono i riflessi di due specchi contrapposti: i millepiani dell’anti-Edipo.»
Il prologo fa un riferimento storico al magistrato osco e marrucino: «il capo mitologico del touto, una sorta di repubblica tribale fondata da vari pagus, entità politiche e amministrative che fondavano la loro unità territoriale su pascoli e armenti, più che su città e fortificazioni», da cui il termine pagano, «gli abitanti dei pagus, infatti, furono i più restii ad accogliere la nuova religione e tra gli ultimi ad abbandonare gli antichi credo.»
Questa ricerca storica delle proprie origini si unisce alla ricerca senza fine della forma letteraria perfetta, si passa costantemente dalla poesia alla prosa alla filosofia, in una sorta di tensione all’assoluto e contemporaneamente all’assolutamente relativo. Questo libro parla di ogni cosa e ogni cosa è in lui. C’è davvero una tensione panica che è compenetrazione di elementi formali e strutturali, di io e mondo, di presente e passato, vita e letteratura. Il primo capitolo, ad esempio, s’intitola La coscienza di Zeno e fa parte della sezione Amor, ch’a nulla amato amar perdona. «Sono un traditore», dice il protagonista, anche se per tutto il tempo si ha più l’impressione che sia più un tradito. Tradito dall’amore che non è mai bello come nell’idealizzazione, tradito dal reale che è troppo poco reale, dal mondo così poco pregnante, come se l’unico rimedio alla brutalità nuda dell’esistenza fosse l’arte e la letteratura. Anche se poi Giosuè/Claudio si perde a tal punto nella letteratura da non saperla più scindere dalla realtà. È la discesa agli inferi di Enea e di Dante, dove si lotta contro i propri stessi demoni rivivendoli nella memoria del mondo. C’è il riferimento all’anarchismo di Pietro Gori, il riferimento alla Storia, alle Radici e all’Identità è un tema portante del romanzo. La narrazione coincide con una dilatazione dell’istante in cui il protagonista decide per il suicidio, e si sdoppia, una parte di sé muore ma torna sotto forme persecutorie. Nulla è mai ciò che sembra. E che c’entra l’albero? Tutto e niente. Se gli alberi potessero parlare forse allora si avrebbe una visione concreta del reale. Se l’uomo smettesse di porsi al centro dell’universo e della catena alimentare allora e soltanto allora si potrebbe accedere al noumeno kantiano, ovvero alla cosa in sé, squarciare il velo di Maya, accedere all’anima del mondo. E persino la follia così sarebbe spiegata come un eccesso di sensibilità, un surplus d’esistenza che tutto vede e non contiene, rompendo gli argini che separano l’io dalle cose. Cos’è io? Rimbaud risponderebbe: io è un altro. Esiste davvero un reale? Cosa c’è all’infuori della percezione e del significato che diamo agli eventi? E percezione e significato sono in fondo qualcosa di molto relativo, relativo al sentire, al contesto, al clima, alla cultura, alla situazione in cui si è collocati. Per questo, in un eloquente passaggio, Marrucci scrive: «È agli artisti, agli intellettuali, alla cultura – non ai politici – che spetta il disegno, l’idea e il progetto della casa: scovare i problemi, elaborare soluzioni. La nostra crisi è intellettuale, prima ancora che politica, economica e sociale; colpa di una intellighenzia incapace di ripensare se stessa e di fornire alle masse nuove categorie di interpretazione della realtà».