L'elzeviro secco
Il vento ha detto no
Una rockstar è bizzarra, capricciosa, sfrontata; fa parte del suo ruolo. Dylan lo è al quadrato. Per sua natura, per la parte che impersona, si sottrae a quegli interrogativi morali ai quali un poeta, nel senso meno generico del termine, è chiamato a rispondere sempre e comunque
A quanto pare, per una volta, il vento ha smesso di soffiare («The answer, my friend, is blowin’ in the wind»): “No” è stata la sua risposta. Bob Dylan non rifiuta in toto l’assegnazione del Premio Nobel, per altro considerata “irrifiutabile”, semplicemente non presenzia alla cerimonia. C’era da aspettarselo. Lo ha annunciato l’Accademia di Svezia che assegna, annualmente, l’onorificenza internazionale. Gli organizzatori confermano di aver ricevuto dal menestrello di Duluth una «lettera personale nella quale spiega di non potersi rendere disponibile per accettare il riconoscimento». Ma c’è una cosa a cui l’Accademia non rinuncia: entro sei mesi a partire dal 10 dicembre Dylan dovrà tenere un’ora di lezione, come unico requisito richiesto.
Precedenti? Pasternak, nel 1958, fu costretto dal regime sovietico a non sbarcare a Stoccolma. Il 1964 fu l’anno in cui Sartre declinò il titolo (sebbene non potesse scrollarsi di dosso il contrassegno), perché «nessun uomo merita di essere consacrato da vivo». Beckett, nel 1969, delegò il proprio editore Jerome Lindon: il conferimento fu una catastrofe per il suo carattere schivo e riservato. Negli ultimi lustri Pinter e Lessing non riuscirono a intervenire per ragioni di salute. Alle motivazioni politiche del filosofo francese e dello scrittore russo, si aggiungono le motivazioni personali degli altri tre. Quella del cantautore americano sembra, invece, a molti una trovata pubblicitaria, un ennesimo tentativo di “lancio” dell’icona. Far parlare di sé. Creare aspettativa. In questo non c’è nulla di strano, d’altra parte: che una rockstar serbi un alone di curiosità in relazione ai propri gesti e alla propria dirittura etica, è perfettamente in linea con lo status, con le finalità ultime del lavoro, con l’idea generale che il pubblico si è fatto, nel corso di decenni d’interminabile carriera, intorno alla sua figura. Idea che non può essere menomamente scalfita né corretta, perché rappresenterebbe il crollo totale del simbolo, vieppiù se Dylan, forte di una doppiezza singolare di pensiero, ha sempre cercato di essere o, se non altro, di apparire il vero iconoclasta di sé. Dylan è la costante distruzione del suo simbolo, la ricerca e l’immediata dissolvenza del successo. La popolarità dell’impopolare. In questo è davvero coerente.
Tutti sanno oramai che una rockstar è bizzarra, capricciosa, sfrontata; fa parte del suo ruolo. Dylan lo è al quadrato. Per sua natura, per la parte che impersona, si sottrae a quegli interrogativi morali ai quali un poeta, nel senso meno generico del termine, è chiamato a rispondere sempre e comunque. Il poeta deve esprimere la bellezza della verità, la verità della bellezza, il cantautore può giocare con il gran teatro del mondo, ha la facoltà di ingaggiare una battaglia a singolar tenzone con l’ironia. Le rockstar sono esponenti della décadence prestati al palcoscenico. Sono i “maledetti” della scena, quelli che possono farsi beffe di chiunque, dar pacche sulle spalle a Presidenti della Repubblica, perché è accettato socialmente che lo facciano (fino ad un certo limite). Sono gli istrioni dei Saturnali, coloro che ribaltano per un giorno la realtà. Sarebbe stato sorprendente, invece, se il maggiore folksinger di tutti i tempi, il padre dei cantautori, avesse esibito con estrema lucidità e arguzia un discorso che consideri in nuce le più forti incognite della poesia presente, le sfide della letteratura contemporanea, le difficoltà e l’ethos che il magistero di poeta, così serio e leale, reca in sé. (Problematiche ben diverse dalla succitata e, per certi versi, amabile stravaganza.)
Il discorso di accettazione del Nobel, come è stato giustamente rilevato, è divenuto nel corso degli anni un momento di profonda riflessione, di acceso dibattito, addirittura una parte considerevole, se non integrante, dell’opera di un autore: basti pensare al Crediting poetry di Seamus Heaney, tradotto in quasi tutte le lingue, o al È ancora possibile la poesia? di Eugenio Montale, che con grande presenza di spirito e mirabile preveggenza snocciolava, ad uno ad uno, i rischi in cui sarebbe incappata la lirica moderna. Per non parlare dello stile esagitato e conturbante della lectio di Iosif Brodskij, legata al terribile tema dell’esilio… Chi ha una certa familiarità con la letteratura sa bene che l’aspetto critico non è mai veramente separabile dall’opera e dal pensiero di un poeta, di uno scrittore, di un artista in generale. Dylan – che certamente non ha dimenticato questo genere di distinzioni – avrebbe tenuto un discorso veramente profondo e puntuale sulla storia del blues, sulle origini e sulla tensione della canzone d’autore americana, sulle problematiche relative alla stesura di una melodia e di un testo. Chi meglio di lui? Però, non sulla letteratura.