“Adesso è tornare sempre” di Pietro Cagni
Il seguito dell’amore
Quella del poeta siciliano è una delle migliori giovani voci approdate alla poesia. Lo dimostra la sua recente raccolta, labirintica e segreta. Dove si parla d’amore e dell'assoluto che diventa “in-canto”…
Pietro Cagni è un giovane poeta siciliano e Adesso è tornare sempre (Le farfalle) è il suo primo libro, seppure non si avverta di essere di fronte a un esordio. Cagni dirige il Centro di poesia di Catania, un modo virtuoso per incalzare il tempo che a volte si avverte rassegnato in alcuni giovani della sua terra, impegnato così a tentare una rinascita, una stagione migliore, attraverso la poesia. È un attento e appassionato lettore di poesia e la sua scrittura porta i tratti di una sicura consapevolezza teorica, possiamo pensare anche che sia legato ad alcuni autori (forse Celan o Yang Lian), ma resta la convinzione che poi la sua poesia sia collocabile in una dimensione originale. E, anzi, anche per questo, matura, divenendo, ai miei occhi, una delle migliori voci tra i giovani poeti letti di recente.
La raccolta presenta forti asperità, spigolosità diffuse e la lettura non diviene quindi agevole, il linguaggio infatti non si manifesta sempre “conseguenziale”, semmai in poesia si possa dire questo, ma procede per incisi e varianti, per scatti e voragini («adesso che appartieni a chi, di chi sei/ con che occhi ci nutri di solitudine»), si insinua centrifugo e debordante, a volte finanche inclassificabile, data la precaria traccia del suo dire labirintico e segreto. E ciò fin dal titolo, quel Adesso è tornare sempre che impone, si può pensare, un ampio pensiero, una morale, un’idea di vita, di affetti, di amicizie, di sguardi tesi al dovere di uomo, non escluso quello di un “ritorno” alla propria terra, o l’essere più attenti di fronte al prossimo, alle esigenze esistenziali che la vita ci propone.
Il libro parla d’amore, ma fuori da qualsiasi retorica, non solo perché il dettato è controllato, ma in quanto c’è un tratto che non indugia sulla pena, ma riecheggia sempre nella possibilità di un seguito. C’è una donna amata e un fratello stretto al proprio cuore e dolorosamente perduto («ogni giorno ti chiamo, non posso/ accogliere/ se non in te la tua mancanza/ rimani/ sei intatto perdono/ delle nostre deboli ciglia/ il tuo nome insperato/ che sugli occhi continua/ a dilagare»), ma probabilmente c’è anche un amore senza soggetto. Un amore che incalza, o dovrebbe incalzare, il presente di tutti, perché è l’amore rivolto a una pluralità di soggetti, che sono l’umanità che ci circonda. E invocante e teso è il discorso verso un assoluto che trasformi un amore in un in-canto, perché tutto può non essere adeguato quando manca la spinta verso un piano supremo, come ricorda prendendo una citazione da Geremia che pare un vero e proprio manifesto etico esistenziale: «c’è nel mio cuore come un fuoco ardente, chiuso nelle mie ossa; mi sforzo di contenerlo, ma non posso». Egli non può vivere una vita marginale, secondaria, priva di affetti e di eccessi, né generosa fin nella sua esasperante dimensione, allora con costanza è bene tendere a tutto questo, perché «se ti guardassi come ti guardo/ io, che sono niente… se ti guardassi/ come ti guarda Dio/ moriresti di meraviglia».
Ma poi l’amore è un approdo, dove, come dice Paolo Lisi nella nota iniziale, «in un continuo e muto dialogo le dà forma e spessore, con movimenti concentrici, sulla pista di ghiaccio», e diviene la mappa cartografica del corpo, che nelle sue parti (guance, caviglie, zigomi, ecc.) si porge alla costruzione di un mondo che nella sua sospesa definizione, diviene quasi eterea passione, sicura poesia. L’amore non fa piangere e disperare l’autore, anche quando il linguaggio a volte prevale sulla vita. C’è l’emozione, il dolore, la gioia, la lontananza, il filo diretto con gli eventi. Mai il pianto. Non sappiamo se a prevalere sia un sentimento o un altro, l’autore sfugge a una precisa indicazione con il suo deposito creativo ricco e sfuggente, ma certo rimangono le venature luminose che si fanno versi e situano il lettore nel punto di un incrocio magmatico, eppure disteso e coerente con la vita. Consegnato a questa lei rimane da sussurrare: «la mia anima/ sta nel tuo sguardo», sentendo che accadere vuol dire portarsi, accostarsi, vivere «sulle ciglia lunghissime degli occhi». E non c’è che guardare il cielo o la luce che la danza dolce consegna e quando lo sguardo di lei si accomuna, allora «le luci non hanno fine, sembri portare/ tra i tavoli il cielo e le sue nuvole».