Dopo l'elezione di Trump
Il demone del tycoon
Il tycoon è stato demonizzato, proprio com'era nella sua strategia. Ma adesso che succederà? Abbasserà la cresta e farà la faccia dolce? In fondo, non ha più bisogno di atteggiarsi a demone...
E adesso? Adesso che l’Occidente si risveglia dal proprio sonno beato e si ritrova alle prese con l’incubo a occhi aperti, la vittoria di Trump, che fare? Come altre volte, ci chiederemo come abbiamo fatto a non accorgerci di ciò che stava avvenendo in America, come sia potuto succedere che il largo consenso che il tycoon newyorchese stava accumulando non sia stato intercettato dai nostri raffinati strumenti, come sia riuscito a sfuggire alle maglie dei sondaggi più efficaci: ne sappiamo qualcosa in Italia, dove i voti per la Democrazia Cristiana prima, e per Berlusconi poi, non sono mai risultati pari a quelli (tanti) che finivamo per contare, a urne chiuse. Quando si discute degli effetti negativi della demonizzazione del proprio avversario, si dimentica di citare l’effetto epistemico: continuando a comportarci come Hillary Clinton con Trump, o come i vari capetti del centrosinistra nei confronti del Cavaliere, ciò che accade è la scomparsa di ogni possibilità di farsi un’idea della realtà politica ed elettorale del Paese, dal momento che milioni di voti entrano nell’invisibilità, diventano sotterranei, scorrono ben al di sotto delle nostre rappresentazioni falsate, del wishful thinking dei commentatori e della classe politica più rispettabile. Semplicemente, in contesti fortemente demonizzati, laddove una delle scelte possibili risulti stigmatizzata e ritenuta inconcepibile dalla buona società, coloro che proprio quella scelta vogliono esprimere si sottraggono alle domande sulle intenzioni di voto, o mentono: tanto maggiore sarà la loro soddisfazione, poi, nell’avere contribuito al rovesciarsi di ogni previsione, nonché nel sottrarsi ai dogmi di un’opinione pubblica da loro avvertita come ostile. (C’è da aggiungere che Trump ha fatto di tutto per essere demonizzato, e non occorre ripetere le sue sparate più ignobili: e se fossero state programmate proprio in ragione della possibilità di aizzare e compattare i propri seguaci contro il Sistema ipocrita e censorio?)
Qualcuno, in realtà, aveva cominciato in tempi non sospetti a denunciare i sommovimenti profondi che stavano agitando il corpaccione americano, le viscere rurali del Midwest, i territori tradizionalmente repubblicani che, però, Barack Obama era riuscito almeno in parte a conquistare, per il fascino e la novità della propria proposta politica nel 2008 e la pochezza dell’avversario nel 2012. Per ottenere però una mappa in cui un buon numero di Stati muti il proprio colore, quello al quale siamo abituati da ben sedici anni, a partire dal 2000 dell’elezione di George W. Bush, occorre ritornare ai tempi di Bill Clinton, l’ultimo Presidente in grado di fare presa (anche) sull’elettorato meno acculturato, più rozzo, cioè di diffondere il proprio faccione tra il popolo dei pickup trucks e dei fucili facili: che orrore, eh? Peccato, però, che l’America sia un po’ più larga dell’University of Chicago e del Greenwich Village e che Clinton (Bill) resti l’ultimo o l’unico ad averlo capito: poi, forse, non si tratta nemmeno di una questione di comprensione, di tattica politica, ma di pura antropologia, e del suo essere originario dell’Arkansas, del quale conserva i tratti da buon contadino e la simpatia priva di affettazione. Si diceva: qualcosa stava accadendo, durante l’era obamiana, e pochi sono stati in grado di coglierlo. Com’è che, dopo gli otto anni di glamour della presidenza più cool della storia americana, ci ritroviamo con l’impresentabile Trump? Sembra la vecchia storia del pendolo impazzito, che non smette di oscillare furiosamente: una storia che, politicamente, funziona quasi come una regola. Ovvero, a un potere fieramente e retoricamente progressista, incapace di riconoscere le ragioni dei propri avversari, segue una reazione risolutamente conservatrice: facciamo un esempio? Introduciamo l’eutanasia infantile e sarà probabile il trionfo di un Torquemada, nel successivo turno elettorale. Ciò dimostra l’arroccamento di Obama sulle posizioni più identitarie e meno condivise del progressismo statunitense? Probabilmente, la questione si è giocata più sul terreno simbolico che su quello fattuale, ma la pratica politica contemporanea è dominata e sopraffatta dai simboli, perciò non deve sorprendere che molti ricorderanno la presidenza Obama come quella del dominio del politicamente corretto.
Ma il discorso torna fino a un certo punto: dovremmo ripeterlo, sennò, per ogni sconfitta che segue agli otto anni di un doppio mandato; dovremmo ripeterlo anche per Bill Clinton, che preparò il Paese all’affermazione di George W. Bush, no? In realtà, i punti di contatto tra i due presidenti sono più numerosi di quanto sembri, e chi si scandalizza ha un’idea molto poco laica della competizione politica, e molto schiava del simbolico, per l’appunto: si può arrivare a dire che gli anni di Bush siano stati la naturale prosecuzione del clintonismo. Cioè, ogni affermazione politica che non sia giacobina e governi il Paese “dal centro” produce effetti reali, oltre che simbolici, incide sul mondo e sul modo della sua rappresentazione e crea le forme della propria riproduzione: in quel caso, Bush era molto più clintoniano di Al Gore, paradossalmente. Lo stacco vero è quello che ha separato Bush da Obama: è lì che si situa l’ultima frattura fondamentale della storia americana, dopo le esperienze di opposizione globale anti-Bush che non hanno precedenti nella storia politica moderna e che sono state incorporate nella campagna elettorale di Obama e nella pratica della sua presidenza. E adesso? Adesso, Trump abbasserà la cresta, proprio quando potrebbe alzarla, farà la faccia dolce, sarà il Presidente di tutti e, insomma, nulla di grave: forse, Obama è stato un Presidente più saggio di quanto sembri, meno giacobino, e certe sue conquiste resteranno immutate, tanto che Trump, dopo tanto strepitare, finirà per risultare la continuazione di Obama con altri mezzi (simbolici): i successi politici li si deve giudicare a distanza di tempo, dopo la scomparsa del loro artefice, quando la cronaca inizia a scolorire e si fa Storia. Ma lo sapremo di qui a breve.