Periscopio (globale)
Hopper e l’assenza
La pittura di Edward Hopper (appena riproposto in mostra a Roma) è un buon grimaldello per entrare nelle contraddizioni americane dove quello che non si vede conta di più delle immagini gridate
Non c’è niente di più americano e al contempo anti-americano dei dipinti di Edward Hopper. Fautore di un’arte pienamente americana, aperta all’influenza europea e in particolare francese, ma non più succuba, in una posizione quindi di pari dignità e non di sudditanza, Hopper è al tempo stesso il più antiamericano dei pittori del Novecento, in quanto del suo paese predilige gli aspetti meno roboanti e spettacolari. Le sue tele le ambienta lungo superstrade dove non passa nessuno, su soglie di case, davanti a vetri da cui proviene una luce di cui ignoriamo l’origine; sono spesso caratterizzate da assenze più che da presenze: assenze di mobili e oggetti, pareti nude, figure umane che sembrano apparire per caso. Come scrive Yves Bonnefoy in un saggio del 1995 edito in Italia da Abscondita, dal titolo Edward Hopper. La fotosintesi dell’essere, “la realtà stessa si cancella in quell’abisso, almeno la realtà dell’esistenza, quella che resiste solo attraverso i segni che proietta intorno a sé”.
In un momento storico in cui gli Stati Uniti sono nel bene e nel male all’ordine del giorno, proporre al grande pubblico un’esposizione dedicata all’americano/antiamericano Hopper sembra un’operazione assolutamente sensata, oltre che tempestiva. Va accolta quindi con grande interesse la mostra romana al Vittoriano, che resterà aperta fino al 12 febbraio 2017.
Intendiamoci però: a Hopper la mostra non rende pienamente giustizia. Intanto, è viziata dal fatto di non (poter?) esporre le tele più importanti dell’artista, quelle conservate al Metropolitan di New York, a New Haven (Università di Yale), a Chicago, Washington e Minneapolis. Di creazioni davvero di primo piano ce ne sarà una mezza dozzina, affiancate da opere giovanili, tele minori e schizzi preparatori in gran parte provenienti dal Whitney Museum di New York, con cui Hopper aveva un rapporto privilegiato e che a tutt’oggi è il luogo dov’è conservata la maggior parte della sua opera .
Un altro difetto della proposta espositiva è l’insistenza su categorie critiche ormai superate da decenni, come il concetto di “solitudine” che si può applicare in modo indifferenziato a tanta arte del XX° secolo e che invece, nel caso di Hopper, è stato opportunamente relativizzato da numerosi studi. Certo, Hopper dipinge luoghi solitari anziché lasciarsi tentare da una resa coloristica e provinciale dell’attivismo americano: ecco quindi una New York deserta, colta magari all’alba o dopo il tramonto anziché nell’attimo di massimo fervore; ecco un distributore di benzina incastonato in un’ambientazione da finis terrae, a cui sembra che nessuno verrà mai a rifornirsi; ecco locali spogli, senz’anima, con avventori, clienti e ospiti di cui non sapremo nulla. Difficile poter affermare che in un contesto simile la solitudine non rappresenti un tema importante; ma farne la chiave dell’interpretazione critica – cosa che del resto lo stesso Hopper è stato il primo a stigmatizzare – sarebbe del tutto fuorviante.
Hopper è uno dei pochi artisti – in senso lato, comprendendo nella categoria scrittori, musicisti, fotografi e quant’altro – la cui preoccupazione principale è, per così dire, ontologica: a lui non preme di raccontare una storia, tanto che le figure umane sono spesso solo abbozzate e prive di qualunque connotazione psicologica o sociale, ma di mettere in luce ciò che nell’esistenza umana è immutabile e universale. Un esempio per tutti: quando nel commentare il quadro Early Sunday Morning Hopper si lascia sfuggire che non aveva affatto in mente una domenica e che quel titolo è stato attribuito al quadro da qualcun altro e a posteriori, sottolinea la volontà di ritrarre la Settima Strada di New York vuota, in uno dei rari attimi in cui il movimento si arresta. Indicare un giorno preciso (in questo caso, la domenica) porterebbe tuttavia a limitare e banalizzare la portata della sua scelta stilistica. La Settima Strada, in altre parole, non è così perché Hopper la ritrarrebbe di domenica, e non è nemmeno così perché la ritrarrebbe di mattina presto; è così perché quella è la sua vera essenza, che per il novantacinque per cento del tempo rimane magari celata ai nostri occhi dalla sovrastruttura delle attività umane, del traffico, del formicolio, del caos, e può essere svelata solo dalla sensibilità dell’artista.
Dicevamo della presenza/assenza, nelle sue opere, degli esseri umani: quando compaiono, non hanno nome, storia o psicologia, il che è uno dei motivi per i quali si prestano così bene (insieme agli ambienti in cui si situano) a essere ripresi dal cinema quale fonte d’ispirazione. Per Psycho e La finestra sul cortile Hitchcock si è ispirato con tutta evidenza a due dipinti di Hopper, House by the Railroad e Night Windows; da parte sua, Wim Wenders sembra modellare sui suoi quadri molte delle sequenze di Paris,Texas; e non parliamo delle atmosfere hopperiane in Zabriskie Point e in altre pellicole di Antonioni. Queste persone, a noi ignote, vivono in ambienti spogli, camere scarsamente arredate, stanze d’albergo provvisorie, uffici dove svolgono funzioni che non corrispondono alla probabile ricchezza del loro animo: sono pretesti, meri punti di partenza di una storia che non sapremo mai dove possa condurre.
L’altro suo grande tema, su cui non s’insisterà mai abbastanza, è la funzione della luce, di cui insegue il segreto fin dagli esordi. Se c’è qualcosa che i viaggi giovanili a Parigi gli insegnano, sarà proprio a dare la giusta importanza alla luce e alle sue interazioni con il colore. D’accordo, Hopper dichiarerà in seguito che gli ci sono voluti dieci anni per rimettersi dall’Europa, ma questa dichiarazione va interpretata nel senso indicato da Bonnefoy, per il quale “Hopper porta a compimento (…) quell’alchimia forse attesa da una certa cultura americana, prigioniera della propria inquietudine morale, paralizzata da un eccessivo rispetto per i musei d’Europa, ma penetrata dal bisogno di fondare dei luoghi, di dare senso ed essere a degli orizzonti.”
Non è un caso che il giovane Hopper si disinteressi di Cézanne e delle avanguardie, in primis il cubismo, nonché dell’arte non figurativa; i suoi modelli sono semmai, e lo resteranno, Rembrandt e Degas. Fin da studente intuisce, e ribadirà poi con forza nel resto della sua lunga e spesso difficile carriera, l’importanza di un certo tipo di realismo quale compito essenziale e mèta della pittura.
Hopper non fa sconti a nessuno e non ne ottiene. Nel 1913 riesce a farsi acquistare un quadro, Sailing, per 250 dollari, ma poi per dieci anni, fino al 1923, non venderà nient’altro. Sarà quindi costretto dall’incomprensione di critici e mercanti a lavorare a lungo come illustratore, dedicandosi alla pittura e all’acquaforte solo nei momenti liberi, prevalentemente durante le numerose estati che passa nella casa acquistata con la moglie Jo, anch’essa pittrice, a Truro, nei pressi di Cape Cod, luogo per lui di grande tranquillità e ispirazione. Nel 1914 non viene ammesso alle mostre ufficiali alle quali presenta i suoi lavori; nel 1915 Soir Bleu, tela ancora d’ispirazione francese, è violentemente stroncata dai critici, con la sola eccezione dell’amico Pène du Bois, che sarà il suo primo e per molto tempo unico cultore; quando lo stesso anno Hopper espone al Mac Dowell Club i critici lo ignoreranno. Alla stessa sorte sarà votata la mostra antologica del 1920 al Whitney Studio Club, che si concluderà senza alcuna vendita né recensioni di sorta. Il culmine del suo mancato incontro con i cosiddetti esperti sarà raggiunto il 4 dicembre del 1921 da un’osservazione del critico del New York Times, che gli riconosce il merito aleatorio, se non ambiguo, di “saper trovare la bellezza nelle cose brutte”. Per i primi successi, accompagnati da vendite soddisfacenti, bisognerà aspettare il 1923. Da tutte queste prove Hopper esce evidentemente indebolito, ma non deflette mai dal compito che si è dato, e in seguito potrà anche permettersi il lusso di piccole vendette, come quando, nel 1932, rifiuta la nomina alla National Academy of Design che lo aveva sempre osteggiato.
Continua dunque a condurre una vita modesta e appartata, punteggiata almeno a partire dal 1925 da una serie di capolavori, dei quali la mostra romana permette di vedere The Lighthouse at Two Lights, Gas e South Carolina Morning, oltre al già citato Soir Bleu e ad opere della giovinezza, ma già di grande interesse, come il Self-Portrait del 1906, Le Pont des Arts, Summer Interior e Blackwell’s Island.
L’attività di Hopper prosegue apparentemente senza scosse fino a Two Comedians, del 1965, l’ultimo suo quadro, dipinto due anni prima della morte, di cui possiamo vedere uno studio preparatorio e che rappresenta non a caso il suo congedo dal pubblico e dalla vita intesa come perenne messinscena. Su un palcoscenico vuoto, su cui Hopper lancia uno sguardo volutamente obliquo, i due attori, la moglie Jo e lui stesso, possono finalmente accomiatarsi da invisibili spettatori, avendo recitato il loro ruolo fino in fondo.