Itinerari per un giorno di festa
Crepereia e il Papa Re
È il luogo per eccellenza dove passato e presente si intrecciano. Ora la Centrale Montemartini offre al visitatore nuove sorprese: lo spazio riservato alla giovanetta romana superstar dei ritrovamenti dell’antichità, e il sontuoso treno di Pio IX
Quando da fabbrica si presentò ai romani come luogo d’esposizione, la Centrale Montemartini affascinò immediatamente. Vecchi padiglioni industriali – industria pesante, turbine e caldaie per la produzione dell’energia termoelettrica – trasformati in quinte per bianchi marmi antico romani, mosaici, statue muliebri drappeggiate provenienti dal Campidoglio parlavano una doppia lingua. Rimandavano cioè all’Urbs gloriosa di oltre duemila anni prima, ma anche alla Capitale sabauda che a inizio ‘900 furoreggiava in intraprese pubbliche e private. La Centrale di via Ostiense, a ridosso del Tevere, conservava pure suggestioni pasoliniane del dopoguerra, con lo scheletro del Gazometro, l’essenzialità dei Mercati Generali, la bassa mole del Mattatoio, le strutture portuali, l’ex stabilimento della Mira Lanza. In questi ultimi mesi però il polo espositivo dei Musei Capitolini ha aggiunto nuovi allestimenti permanenti, sistemato reperti in altre sale, squarciato ulteriori scenari storico artistici. Insomma una rinascita dopo quella del 1997, allorché la Montemartini si inaugurò avviando il gioco dei contrasti tra archeologia classica e archeologia industriale.
Ecco dunque lo spazio riservato a una superstar dei ritrovamenti d’antichità, la giovinetta Crepereia Tryphaena. L’incontro avviene appena superato l’atrio. Qui è stata ritagliata una sala con pannelli lignei rossi nei quali si aprono finestre e vetrine illuminate dall’interno. Si ripercorre così la vicenda dello straordinario ritrovamento della sepoltura della nobile ragazza romana. Il suo sarcofago emerse nel maggio 1889 accanto a quello di un altro membro della famiglia (sono esposti entrambi con gli scheletri adagiati) nel corso degli scavi per la costruzione del Palazzo di Giustizia. Quando venne alla luce, il sarcofago era pieno d’acqua e il teschio sembrava coperto da una folta e lunga capigliatura fluttuante. Ma non erano capelli. Con l’acqua erano penetrati nel sarcofago i bulbi di una pianta acquatica che produce lunghissimi filamenti color d’ebano; e per uno strano caso i bulbi avevano messo le radici sul cranio. Nella sepoltura c’era il corredo funebre della fanciulla: orecchini, fibula, collana e una bambolina d’avorio a sua volta dotata di un minuscolo corredo funerario, una di quelle “pupae” snodabili come Barbie delle adolescenti romane che venivano dedicate a Venere in procinto delle loro nozze ma che le seguivano nella tomba nel caso morissero prima di diventare mogli.
Fu questo oggetto a riempire le pagine dei giornali e la fantasia dei lettori al momento della riesposizione del reperto. Insomma, fu spunto di una suggestiva narrazione mediatica. Insieme con un altro “gioiello”: una corona di mirto con un fermaglio d’argento al centro. Il mirto era la pianta sacra a Venere, simbolo di fecondità e di erotismo, e in quanto tale si usava nei matrimoni, come ci dice Plinio. Ma era anche un simbolo di morte, sacro a Proserpina perché si riteneva che crescesse nei giardini dell’Ade: contraddizione solo apparente perché nel ciclico fluire della vita tutto torna alla Grande Madre generatrice. Vi era pure una splendida ametista con inciso un grifo che insegue una cerva e un anello d’oro con il nome di Filetus, probabilmente il fidanzato della giovane.
Ce n’era per colpire la fantasia di Giovanni Pascoli, che nei Carmina dedicò a Tryphaena una malinconica poesia in latino. Vi immagina che la giovinetta fosse morta poco prima del matrimonio e, immedesimandosi nel fidanzato, sente rinascere in sé l’amore per la giovane che un destino crudele gli ha sottratto anzitempo. Pascoli-Fileto vuole seguire Trifena nella tomba e si volta a guardare la sua ombra: «… Vespero già sfiora con la sua luce d’oro le marmoree colonne della Mole Adriana; branchi di corvi in fuga passano volando sul Pincio; ed ecco, a poco a poco, mi sento rapire, e come dileguare nel vuoto, immemore d’un cuore ormai silenzioso; invano la voce di tua madre tenta ricondurmi indietro; invano mi chiama – Fileto!».
Mosaici pavimentali coloratissimi di età repubblicana e imperiale costituiscono ulteriori novità, sistemati nella cosiddetta Sala Colonne e in quella Caldaie. Invece nella Sala Macchine è in mostra fino a gennaio prossimo un prezioso prestito giunto dalla Gipsoteca Ny Carlsberg di Copenaghen. È la testa-ritratto nel grigio scuro della basanite, roccia eruttiva, di Agrippina Minore, moglie di Claudio e madre di Nerone, che stanco del suo protagonismo la fece fuori. Il bello è che questa testa è sistemata accanto alla statua di “Orante” proveniente dai Musei Capitolini e ritrovata nell’Ottocento, durante gli scavi della costruzione dell’Ospedale Celio. È nello stesso materiale del reperto proveniente dalla Danimarca. E la pertinenza dei due reperti è stata dimostrata da studi scientifici che dimostrano il punto di attacco dei tronconi, perfettamente combaciabile.
Ed ecco infine l’ultimo “fuoco d’artificio” della Centrale Montemartini. Si è acceso una decina di giorni fa con l’apertura dopo il restauro, di un nuovo grande spazio, la Sala caldaie n. 2. Qui troneggia il treno di Pio IX, ovvero un convoglio formato da tre carrozze. Giovanni Mastai Ferretti lo ebbe in dono nel 1859 dalle due compagnie che gestivano le linee ferroviarie fatte costruire subito dopo il suo esilio nel Regno delle Due Sicilie, dove il Papa Re aveva potuto ammirare i collegamenti ferroviari realizzati dai Borbone, a partire della mitica Napoli-Portici del 1939. Pio IX provò personalmente il suo treno il 3 luglio di venti anni dopo. Ci salì a Porta Maggiore, terminal delle linee ferroviarie pontificie, e arrivò fino alla stazione di Cecchina, sulla tratta per Albano.
Il convoglio è rimasto a lungo in letargo. Nel 1870, dopo la Presa di Porta Pia, le tre carrozze furono ospitate in una rimessa della Stazione Termini, dove furono depredate di alcuni ornamenti. Nel 1911 ricomparvero a Castel Sant’Angelo, per le celebrazioni dei cinquantenario del Regno d’Italia. Nel 1930 furono trasferite nel Museo di Roma in via dei Cerchi, poi, nell’agosto del 1951 a Palazzo Braschi, nuova sede del Museo, nel quale poterono entrare solo dopo un’apertura della facciata su Piazza Navona. Ma non furono esposte. Ora la gigantesca Sala caldaie n. 2 riesce a ospitarle e l’allestimento ci parla della Storia, dell’arte e del costume. È vero, non si può entrare nei tre vagoni. Ma ci si può girare attorno, sbirciare dai ballatoi in ferro artisticamente battuto, dagli ampi finestrini ornati da tende gialle, o muoversi virtualmente in ciascuno di essi grazie a tre postazioni multimediali.
La vettura più sontuosa è la Cappella. Una “chiesa viaggiante”, consacrata perché il Papa vi celebrò messa. Un luogo destinato alla sua meditazione e preghiera. Ma anche uno dei primi esempi di vettura su due carrelli snodati a perno, quattro ruote ciascuno. La società francese preposta alla linea Pio-Latina la pagò 140 mila franchi al produttore transalpino che la fece giungere a Roma trasportandola per via fluviale fino a Marsiglia, poi imbarcandola in nave fino a Civitavecchia e infine facendole riprendere la via fluviale del Tevere fino a Ripa Grande. Rame argentato e dorato di Christofle riveste l’esterno insieme ai tre angeli e ai quattro grifoni eseguiti dal Godin. All’interno decori e dipinti di Gerôme e Cambon. Perduti i medaglioni con i dodici apostoli, restano i due tondi raffiguranti la Vergine e il Buon Pastore, esposti all’ingresso della ex Sala caldaie accanto a una grande piastra con lo stemma di Pio IX che abbelliva frontalmente la locomotiva del treno papale. Gli altri due vagoni sono la cosiddetta Balconata e la Sala del Trono con annesso un piccolo appartamento, tutto rivestito di stoffe purpuree. Dal primo il Papa Re si affacciava per benedire la folla, inquadrato da colonnine tortili dorate, cornici di foglia di quercia e alloro e fiori cesellati nel rame.
Il binario sul quale è scenograficamente posato il treno rimanda, nelle rotaie d’acciaio, al materiale che dominava la Centrale Montemartini, intasata di macchine sbuffanti. Passato e presente si intrecciano ancora di più in questo luogo.