Pasquale Di Palmo
La voce del poeta: Gian Mario Villalta

Corteggiare il niente

Nella sua recente raccolta, i grandi temi del nostro tempo e una vena di pessimismo cosmico. Inevitabile, dato che il linguaggio della poesia ha il compito di rendere possibile l'incontro tra chi scrive e chi legge: ecco l’intento dell’autore, direttore artistico di “Pordenonelegge”

Ideale prosecuzione di Vedere al buio (2007) e Vanità della mente (2011), la raccolta Telepatia (LietoColle, 162 pagine, 13 euro) comprende diciannove poemetti suddivisi in quattro parti (con un paio di eccezioni composte da cinque) che rivelano un intento programmatico e concettuale molto spiccato. Sulla falsariga dell’Eliot dei Four quartets più che della Waste Land, il dettato di Villalta si rapporta in maniera quanto mai pregnante e originale ad alcune delle grandi tematiche del nostro tempo: dalla globalizzazione all’uso smodato delle tecnologie, dalla fine della civiltà contadina all’omologazione di pasoliniana memoria. Ma il Leitmotiv del libro è quello dell’incomunicabilità, dei rapporti sfalsati tra le persone, delle maschere adoperate per nascondere finanche a sé stessi il proprio io: «Ricordo con poca tenerezza / quando mi ritenevo necessario»; «Sfibrato nell’utile sforzo / di trattenere me stesso in sé tutto il giorno».
Villalta, oltre che in lingua, si esprime anche in dialetto veneto, come in una delle sezioni più intense della raccolta, Tra ti e mi, dedicata al rapporto intercorso con Andrea Zanzotto (altri maestri ricordati sono Bandini e Giacomini), di cui l’autore pordenonese ha curato il «Meridiano» delle opere ed è uno dei maggiori esegeti. Non è un caso dunque che, sull’onda di tali esempi, la poesia di Villalta persegua una linea sapienziale, ontologica, che poco o nulla concede sul versante lirico. Il linguaggio, quando non viene contaminato con termini scientifici o specialistici, è tutto giocato su una ratio quasi cartesiana che non rinnega però una forte dissacrazione venata di ironia e che poggia su motivi che rimandano a un pessimismo di matrice cosmica (a tal proposito Galaverni ha parlato di una particolare forma di “cinismo”) in cui il “niente” si configura come unica entità tangibile: di noi, del tempo, della storia.

La sua ultima raccolta, Telepatia, inaugura la collana “Giallo Oro”, edita da LietoColle con la collaborazione di Pordenonelegge, che affianca quella “Gialla” dedicata ai poeti più giovani. Può parlarci di questa nuova iniziativa?
telepatia
L’esperienza biennale della “Gialla” dedicata ai giovani, preparata dal “Censimento dei poeti under 40” e dal successivo “Questionario”, ci ha suggerito (a me, all’editore, ai nostri collaboratori) una riflessione: un grande festival può veicolare l’attenzione per la poesia facendo qualcosa di inatteso, ovvero fare del libro un tramite di condivisione. Mentre per altri aspetti del mercato del libro oramai il rapporto si riduce a una relazione produttore/consumatore, la poesia è sempre qualcosa di altro e di più del libro che la contiene, anche per i legami umani tra gli appassionati di questo genere letterario. E poi ci siamo resi conto che ci sono molti poeti interessanti e già affermati che faticano a trovare un editore. Per quanto mi riguarda, inaugurare la nuova collana, oltre che un onore, è stato – come si dice – “metterci la faccia”, ovvero testimoniare che ci credo.

Telepatia è un libro suddiviso in 19 poemetti. Quali sono le tematiche di questa raccolta?
Ho cercato di accogliere il senso del tempo che viviamo attraverso la mia esperienza. La vita intima e le relazioni affettive, il tempo che passa, la situazione politica vista attraverso la vita quotidiana, i debiti poetici. Ogni poemetto tratta un tema preciso e ben individuato, in un tentativo di equilibrio e ricomposizione tra liricità, narrazione e confronto con le forme correnti del parlare. Una formula, questa del “poemetto”, alla quale sono approdato come soluzione provvisoria rispetto a queste diverse spinte tematiche e stilistiche. Ogni poemetto fa opera a sé. E tutti insieme costituiscono, per quanto mi riguarda, la mappa attendibile di un territorio poetico che corrisponde ai sentieri già percorsi – ma riattraversati – e ad altri che sono andato esplorando.

Si ha l’impressione che ogni sua raccolta poetica rappresenti una svolta rispetto alle precedenti, come se lei volesse misurarsi sempre con nuovi stimoli e obiettivi. È così?
È la vita che non sta mai ferma. La soluzione del poemetto – come già accennato – è proprio venuta dalla tensione tra la volontà di tematizzare una situazione e l’esigenza di rispondere alle urgenze. D’altra parte, noi siamo sempre lì, in cerca della poesia, ma la verità è che è lei, la poesia, che arriva e ci sorprende quando decide di arrivare. Forse percorro vasti territori alla sua ricerca. Forse troppo vasti? E però, quando la poesia decide di sorprendermi, mi pare sempre che lo faccia sulla porta di casa.

Lei è il direttore artistico di “Pordenonelegge”, kermesse annuale dedicata ai libri e all’editoria in cui la poesia si è ritagliata un posto di rilievo. Nell’epoca in cui i grandi editori tendono a dismettere collane di poesia storiche (si pensi alla “verde” di Garzanti) sembra un segnale in controtendenza. Secondo lei sussiste un certo interesse nei confronti della poesia?
Dico qui quello che avrei potuto anche aggiungere alla domanda iniziale: quello della poesia non è più considerato un mercato, dai grandi editori, e in un certo senso davvero non lo è. Non è soltanto una questione di numeri. La poesia è dispersa in modo pulviscolare e non succede mai che l’attenzione di tutti i lettori si concentri su due o tre libri in un anno, come accade per altri generi. Non credo comunque che il problema della poesia italiana e in generale europea oggi sia quello delle vendite. Viene prima la questione di un discorso poetico riconoscibile rispetto a un orizzonte di forme condiviso. La poesia è al fondo della relazione fondamentale che ognuno di noi ha con la parola, per questo è di tutti, necessaria e immancabile. Però poi occorre trovare forme riconoscibili, dove addensare l’incontro tra il mondo di chi scrive e quello di chi legge. Ed è su questo fronte che c’è ancora da lavorare molto, in Italia. Tenuto conto che quella italiana è tra le poesie più interessanti attualmente in Occidente.

Oltre che poeta e saggista lei è anche narratore. Il suo ultimo romanzo, appena uscito, si intitola Scuola di felicità ed è incentrato sulla sua esperienza di insegnante a contatto con gli adolescenti. È possibile stabilire un rapporto proficuo tra generazioni nel segno della letteratura e della poesia?
Se non è possibile questo, la poesia muore. La poesia sta tutta quanta in questo gesto, questa esperienza di trasmissione/condivisione. A scuola prima di tutto. Il mio romanzo racconta un anno di scuola e focalizza l’attenzione proprio su ciò che è al centro dell’insegnamento: la relazione umana attraverso la conoscenza e la creatività. Il tracciato che soggiace alla vicenda del romanzo, che è la vita riconoscibile della scuola, al tempo stesso amara e sorridente, insiste sulla necessità di un sapere che è più di un “saper fare” o immagazzinare informazioni. Ci deve essere un crescere, un investimento del desiderio, qualcosa che indirizzi il sapere e il “saper fare” verso un orientamento vivo, attivo e coinvolgente. Con l’esperienza della trasmissione di un sapere siamo al centro della maggiore profondità di rapporto umano possibile e allo stesso tempo nel cuore segreto del tempo e della storia.

Quali sono i suoi autori di riferimento?
Molti. I più vicini, tra quelli che sono già storia, sono: T. S. Eliot, Paul Celan, Seamus Heaney, Vittorio Sereni e Andrea Zanzotto. I più lontani Orazio e Catullo. In mezzo, un mare non piccolo di altri nomi. Ma ho imparato molto anche da diverse altre forme di scrittura. Dalla musica, inoltre. Un poeta deve tenere conto della musica – non della musicalità, intesa come “orecchiabilità” – delle parole.

Cosa sta preparando attualmente?
Canzoni senza musica. Ne ho scritte cinque. Vorrei arrivare a dieci o dodici: un album, come si diceva una volta. Sono prima di tutto esperimenti metrici: cerco di scrivere in modo che la lettura a voce alta costringa a seguire un ritmo che sale in evidenza, ovvero quasi, sommessamente, a insediarsi sulla soglia del canto. Mantenendosi però su quella soglia, senza oltrepassarla.

Può commentare la poesia inedita presentata?
Ogni mattina, al risveglio, ognuno chiama a raccolta sé stesso, prima di entrare nel giorno. C’è un passaggio, un tempo incalcolabile (abbastanza lungo o brevissimo), subito prima, tra il sonno e la veglia, sul quale ognuno di noi esita, si perde, si ritrova.
Solo un’indicazione: da un po’ di tempo mi sono messo in testa di scrivere poesie che non hanno bisogno di commento, anzi, spero di scrivere poesie che ispirino un commento a chi le legge.

 

***

villalta

Pochi secondi prima che la sveglia…

Già le auto, che dopo lo stop

accelerano in ripresa:

lacerano la stoffa

tesa

tra gli aceri della notte.

 

Già il tramestare, il tintinnio, lo sbattere

di là dalla parete:

il vicino e la lavapiatti – coppia perfetta –

il battibecco di ogni mattina alle sette.

 

Ora viene la luce, eccola!,

che la porta-finestra riquadra

e ne stampa l’impronta

lucida

sul pavimento.

 

E con la luce l’attesa.

 

Ancora un minuto, un minuto.

Che cosa aspetto, da sempre? Che cosa, anche oggi,

da quale muto ingorgo di tempo

viene a scovarmi nel giorno? Dove si annida? È il mio corpo?

 

Oppure è luce – che nella luce

fa spazio, luogo, misura

del giorno che cuce intorno

a me illuso il mondo?

 

È ora. Adesso. Torno

alla veglia. Entro – prima che trilli, e spilli

i nervi la sveglia – nel consueto me stesso. Quello

 

che lento alla luce rammenda

lo sguardo, i pensieri, il tempo.

Gian Mario Villalta
(La foto di Villalta è di Giulia Naitza)

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