Dopo le scosse di ottobre
Appunti sul terremoto
Dalle tragedie recenti, qualcosa abbiamo imparato: migliore comunicazione, miglior coordinamento nei soccorsi. Ma è nella cultura della prevenzione e della tutela che siamo ancora indietro...
Ho pensato che un ladro stesse cercando di scardinare la serranda. Ho svegliato Andrea, in quel momento il pavimento ha iniziato a ondeggiare. Il ladro di tranquillità è il terremoto. Dall’infanzia sappiamo che a Roma il rischio sismico è basso; inoltre, le scosse finora percepite, negli anni, sono il riflesso lontano di onde il cui epicentro è a 100 -200 chilometri di distanza. Eppure, al risveglio, il bollettino è allarmante: palazzi d’abitazione lesionati in diverse parti della città, la basilica di San Paolo, i controlli nelle aree archeologiche, lesioni anche alla lanterna di Sant’Ivo, audace guglia di Borromini. Bisognerebbe, credo, rivedere le inveterate certezze e adottare comportamenti più prudenti. Il terremoto è una bestia i cui modi non lasciano spazio a falsa sicurezza.
Norcia, per esempio, non ha resistito. Dopo la scossa del 24 agosto, era stata elogiata per la buona ricostruzione del 1989 e del 1997. Una scossa più forte, l’epicentro più vicino, l’hanno messa in ginocchio. L’interrogativo, quindi, va aggiornato: la ricostruzione è stata una buona ricostruzione? Non è una domanda polemica, se si guarda alla serie dei terremoti in Italia, di cui abbiamo memoria diretta, dal Belice, nel 1968, al Friuli, all’Irpinia, l’Umbria, le Marche, il Molise, l’Aquila, l’Emilia Romagna, fino a quello in corso, alle immani tragedie di un tempo si è cercato di porre rimedio, con una organizzazione efficiente dei soccorsi e con l’affinamento e la ricerca sulle tecniche costruttive. Questo non allevia il dolore e, atroce, il senso di colpa, di chi ha perso persone care, soprattutto se si tratta di bambini o di vite giovani. Però consente di guardare dentro alle tragedie e di scoprire dove è stato l’errore, dove il marcio. Di stringere i margini del fatalismo di coloro, e sono tanti, che pensano che nulla si può in una terra che ha il suo bene più prezioso nel tessuto antico. Il custode del monastero di Sant’Eutizio, a Preci, ha raccontato che sono stati spesi miliardi di lire, per il Giubileo del 2000, un bagno per ogni cella, sostanzialmente trasformando l’eremo in hotel. Ma nulla è stato investito per l’adeguamento antisismico. O forse i soldi destinati a questo, adombra il custode, si sono depositati altrove. Il difetto di questo tipo di opere è che non sono appariscenti. All’opposto, a L’Aquila, alla vigilia del terremoto era stato restaurato il complesso di San Domenico, anche quello un sistema stratificato e antico, costruito e trasformato fra il XIV e il XVII secolo. Un restauro ben fatto dalle Opere pubbliche che ha retto perfettamente alla “cornata” del 6 aprile 2009. Anche il tessuto antico minuto può essere difeso, almeno possono essere adottate misure salvavita: rispetto, nelle ristrutturazioni, per i criteri costruttivi antichi, poiché ogni epoca ha usato sapere e saggezza nel contrastare i pericoli, reti fra pietre e intonaco, catene, sono interventi di poca spesa. Riconoscere i progressi, chiedere se non si potesse fare meglio, essere severi verso chi non rispetta le regole, dovrebbero essere gli ingredienti di una cultura nazionale e condivisa.
Non ci sono state vittime il 26 e il 30 ottobre. Questo è motivo di grande consolazione ma la mente torna a l’Aquila, 7 anni fa. E alla strage del 24 agosto 2016.
Se non dobbiamo, oggi, piangere morti, lo si deve in gran parte ad un unico fattore. Le popolazioni della zona terremotata erano già fuori casa. Sono fuori dal 24 agosto. O sono andate altrove o sono allertate e pronte a difendersi. Cinque delle sette studentesse che abitavano a Camerino, nella casa su cui è crollato il campanile medievale erano già altrove. Le altre due, le uniche rimaste, sono state graziate da una scossa premonitrice che le ha fatte fuggire prima di quella fatale. I cani ululavano a Norcia, mezz’ora prima della scossa. Chissà che non abbiano salvato qualcuno. In questa sensibilità animale c’è un indizio per indurre a non abbandonare le ricerche sulle possibilità, non ancora disponibili, di previsione.
Non abbiamo assistito a sceneggiate tranquillizzanti, come sette anni fa. Il terremoto dell’Aquila e anche quello dell’Emilia Romagna sono stati d’insegnamento. In Emilia il maggior numero di morti è avvenuto a causa della seconda forte scossa: in quella zona industriosa, ci si era rimessi al lavoro troppo presto, per non arrendersi alla furia della terra. Generosa imprudenza pagata da alcuni con la vita, che non avrebbe dovuto essere consentita, se non dopo l’approntamento di un protocollo per la sicurezza.
Il processo alla Commissione grandi rischi a L’Aquila si è concluso in Cassazione qualche mese fa, nel marzo 2016, con l’assoluzione degli esperti e con la sola condanna del vice capo della Protezione civile, che si era esposto con dichiarazioni imprudenti e non veritiere alla televisione. Archiviata, in procedimento parallelo, la posizione del suo capo, Guido Bertolaso. Quel processo fu oggetto di furibondi attacchi e di pesanti ironie: processo alla scienza, processo a Galileo. Eppure il calvario di alcuni seri scienziati, che furono usati dal circo mediatico allo scopo di tranquillizzare studenti e popolazione aquilana, è stato d’insegnamento. In quel lungo dibattimento si è accertata la verità, al di là della rilevanza penale degli atti dei singoli: il comportamento superficiale, negligente e imprudente della autorità preposta alla protezione dei cittadini è stato causa di morte. I comunicati attuali della Commissione grandi rischi, né allarmistici né tranquillizzanti ma descrittivi, sembrano avere appreso la lezione, appaiono più adeguati al modello di informazione volto alla sicurezza, non paternalistico ma veritiero, sulla base delle risultanze scientifiche disponibili.
Dall’incerto al certo. Certo è che molte vite avrebbero potuto essere risparmiate, se le case popolari in cemento armato di Amatrice, risalenti alla metà degli anni Settanta, avessero retto. Non ci sono giustificazioni: il cemento armato deve resistere. Vale per gli effetti del terremoto quel che ha detto il ministro Graziano Delrio a proposito del viadotto crollato in Brianza: «C’è da combattere con un sistema di corruzione che ha rovinato il sistema delle opere pubbliche».
E all’incredibile. È incredibile che il campanile di Camerino non fosse puntellato, come è incredibile che non siano stati puntellati monumenti e chiese lesionate dalla scossa del 24 agosto. Giustamente Tomaso Montanari polemizza contro l’inerzia del ministro dei Beni culturali Dario Franceschini, che dovrebbe strepitare per ottenere i mezzi che lo mettano in condizione di rispettare il mandato che la Costituzione gli affida, la tutela del patrimonio storico-artistico.
Post Scriptum
Ho sentito ieri sera alla Tv, il segretario generale dei Beni culturali, Antonia Pasqua Recchia, dire a proposito della polemica sulle chiese non puntellate: «Non è l’ora degli sciacalli». Si definiscono sciacalli, dopo i terremoti, coloro che si insinuano fra le macerie per rubare i beni degli sfollati. La violenza verbale di quella risposta all’allarme lanciato dallo storico dell’arte Tomaso Montanari è indice del grado di insofferenza raggiunto dalle autorità nei confronti della critica, del controllo e del dibattito pubblico. E non è un buon indice sullo stato di salute della nostra democrazia.
Sono passati due mesi tondi dal 24 agosto al 26 ottobre, quando la torre di Camerino, prezioso simbolo della città universitaria, è crollata su una abitazione. Solo la fortunata sequenza di una scossa più debole che ha preceduto la più forte ha evitato che sotto quel crollo fossero sepolte due ragazze. Questo mette in evidenza che la difesa dei beni culturali e la difesa della vita umana, talvolta, si possono tentare con un unico atto.
Credo che Montanari abbia avuto ragione a polemizzare sulla lentezza e mancanza degli interventi di puntellamento o imbracatura dei monumenti ma che abbia sbagliato nell’indicare la causa nella riforma di Franceschini. La riforma sarà cattiva, come pensano molti soprintendenti, o buona, ma non c’entra.
Il problema sta nel fatto che il nostro paese è rimasto scottato dall’abuso fatto negli anni passati dalle procedure di somma urgenza. Procedure nate per fronteggiare le catastrofi saltando l’iter delle gare e delle autorizzazioni multiple necessarie nell’ordinario, che sono state allargate all’organizzazione dei G8, ai mondiali di nuoto e di vela, alle visite papali. Un grimaldello, nei migliori dei casi, per superare le pastoie burocratiche che, nei peggiori, si è trasformato in strumento di facili arricchimenti, di potere, di corruzione. E anche di estromissione, nel caso dei monumenti storici e delle opere d’arte, dei tecnici più qualificati, del Mibact. Così, dopo Bertolaso, si è tornati alle procedure ordinarie di cui si lamentano, ora i sindaci che guardano impotenti crollare i loro monasteri, i palazzi civici, le chiese. Eterno stop and go in un paese che non riesce a procedere con riformistico senso della misura e della ragionevolezza, anche per effetto di due altri fenomeni: il potere di supplenza esercitato dalla magistratura, nelle cui maglie finiscono funzionari bravi e funzionari pessimi, l’eterna lotta fra strutture burocratiche statali, insofferenti verso gli organi di coordinamento che, a loro volta, tendono, piuttosto che a coordinare a sostituire. Così, ad esempio, a L’Aquila, la catalogazione e l’impacchettamento di tele e statue fu affidata alle associazioni di volontariato invece di chiamare a raccolta e coinvolgere gli esperti dei Beni culturali. Quando Zamberletti istituì e costruì la Protezione civile, si stabilirono due norme banali che, in seguito, sono state abolite o trascurate, e che mi sembra, nella loro semplicità, sarebbero tuttora efficaci, rendendo più facile il lavoro della barocca struttura dell’Anac: 1) il limite temporale della somma urgenza, sei mesi dopo i quali si torna alle procedure ordinarie; 2) una relazione accurata delle scelte e delle spese compiute, che allora il capo della Protezione civile consegnava ai presidenti del Parlamento perché le sottoponessero all’esame delle Camere. Si era, allora, in tempi di grande prestigio degli organi elettivi. Sarebbe bello se si trovasse la strada per recuperare quel prestigio.