Il caso Cristiana Collu
A che serve un museo?
Non si placano le polemiche sul nuovo allestimento della ex-Gnam di Roma. Possibile che tutto debba sottostare alle leggi della spettacolarizzazione? Sì, no, forse... Il guaio è che nessuno dei responsabili risponde
Ogni giorno, attraverso il suo ufficio stampa, il ministro della cultura Dario Franceschini inonda le redazioni di comunicati che documentano il suo operato, attestano il suo pensiero e la sua presenza: accordi internazionali, nomine firmate di suo pugno, inaugurazioni, partecipazioni a incontri e convegni, auguri e complimenti, necrologi e commemorazioni funebri. Giusto, anche in nome della trasparenza, che un ministro dia conto in modo così tempestivo di cosa fa e di casa pensa. Ma allora perché non ha trovato tempo e modo di pronunciarsi sul terremoto che ha investito la Galleria nazionale d’arte moderna dove quasi due settimane fa Cristiana Collu, la nuova direttrice, da lui insediata, ha varato una mostra che rivoluziona l’assetto, l’offerta al pubblico delle collezioni e le finalità del museo?
E neppure di tamponare la falla al vertice che in seguito a questo radicale colpo di mano si è aperta nel comitato scientifico, da lui stesso nominato solo pochi mesi fa per affiancare la direzione: due membri su quattro, Jolanda Negro Covre e Claudio Zambianchi dimissionari; un terzo Fabio Benzi, rimasto ostinatamente al suo posto ma solo per dare più peso alle critiche che in una lettera inviata al ministro e resa pubblica condivide. E soprattutto all’accusa di esser stato posto, come gli altri colleghi, di fronte al fatto compiuto. A che serve – chiede Benzi – una commissione di esperti, chiamati per statuto ad esprimere pareri, consigli e linee di indirizzo, sia pure in modo non vincolante, se su una scelta così radicale, che di fatto comporta la rifondazione del museo, non viene preventivamente consultato? Inutile sostituire i membri dissenzienti, tanto vale abolirlo. Per interpretare fino in fondo il ruolo di consulente che gli è stato assegnato, Benzi non esita a dire la sua. D’accordo con due operazioni firmate dalla Collu: quella di sfrondare le opere della raccolta in mostra per valorizzare capolavori ed eccellenze e quella di restituire aria e luce al museo, cui riconosce risultati «magnifici». Pieno disaccordo invece sul progetto di riallestimento che – scrive Benzi – obbedisce al principio di fondo in base a cui l’arte è sempre contemporanea, poiché contemporaneo è lo sguardo che la considera.
Infatti, in conseguenza di tale presupposto attuato in modo esasperato e narcisistico, le opere sono decontestualizzate dalla loro storia e quindi dalla loro genesi culturale. Nessun cartello orienta il visitatore su scelte così arbitrarie. Gli esperti d’arte non avranno problemi, ma il pubblico non è formato solo da esperti. Indubbiamente, l’effetto complessivo è scenografico, ma credo che gli stessi effetti si sarebbero potuti ottenere anche attraverso un’esposizione storica, modulata e intercalata da confronti altrettanto e più efficaci rispetto a quelli proposti dalla Direttrice.
Il problema museografico della presentazione storica o diacronica, tematica, associativa è stato dibattuto in vari Musei. Citerò, a titolo esemplificativo, almeno le presentazioni temporanee del Moma durante i lavori di ristrutturazione alla fine del secolo scorso, e l’allestimento della Tate Modern, fermo restando che la parte storica della Tate Britain non fu minimamente toccata. Da tempo si è però unanimemente tornati a una visione più “storica”, con approfondimenti anche tematici, perché ci si è resi conto che lo sguardo fondato sul criterio dell’“eterna contemporaneità” tralascia di valorizzare troppi significati intrinseci dell’opera d’arte e soprattutto dei loro creatori, gli artisti, che perdono consistenza in una fruizione funzionale e astratta delle opere».
«L’attuale allestimento – conclude Benzi – è più simile a una Biennale che non a un Museo. È perfettamente accettabile, in altri termini, come mostra temporanea che si interroghi positivamente sulla funzione propositiva del Museo, proponendo assonanze inedite tali da costituire una riflessione costruttiva sul futuro, definitivo allestimento della Galleria e rilanciare la curiosità nel pubblico. Ma dovrebbe durare tre o sei mesi, non un anno e mezzo. Per la Direttrice invece tale allestimento non costituisce una mostra, come da sua perentoria ammissione, ma l’allestimento definitivo. Trovo inaccettabile che in futuro nessun giovane studente, nessun visitatore straniero, nessun visitatore potrà più avere un’idea di ciò che fu ed espresse un ben preciso periodo della storia dell’arte italiana. Non potrà più meditare, facendo confronti, sui nostri anni Cinquanta o Venti del secolo scorso, sul nostro Neoclassicismo o sui nostri Macchiaioli. È un bene o un male? La Direttrice sembra pensare che sia un bene, ma non ha voluto confrontarsi con le ragioni di chi pensa, invece, che sia un male, per noi italiani e per la nostra immagine e la nostra storia all’estero. Certo, sull’onda di queste polemiche, molti andranno a vedere e visitare la Galleria, che negli ultimi anni languiva con pochi visitatori. Ma il fine di un Museo così importante è davvero solo avere molti visitatori, a qualsiasi prezzo?».
Domande e osservazioni che non hanno fino a oggi trovato risposta. E sono rilievi che molti sembrano condividere: la lettera diffusa sui social network ha registrato oltre 70 mila consensi. Curioso, da parte del ministro curare tanto la propria immagine e poi vanificare così, con questo silenzio, ogni sforzo di trasparenza. Un arroccamento che desta forti preoccupazioni anche sul futuro più a lungo termine che riguarda la Galleria di valle Giulia, attesa al varco da altre scelte non meno impegnative. Tra tutte, il ripristino del padiglione disegnato negli anni ’60 dall’architetto Cosenza sorto alle spalle delle due ali principali e rimasto incompiuto. L’ampliamento inaugurato negli anni ’80 e utilizzato saltuariamente è chiuso da oltre un decennio, abbandono che lo ha trasformato in un rudere. Anni fa c’era persino chi pensava di demolirlo e sostituirlo con un nuovo fabbricato messo a concorso e aggiudicato ad uno studio tedesco. Ma il progetto molto costoso fu bloccato a furor di popolo.
Ora il ministero ha stanziato i fondi per il restauro: 13 milioni di euro. E la Collu si è impegnata ad accelerare l’intervento. Per farne che? Per usarlo come magazzino in cui stivare e rendere visitabili le opere in collezione: quasi ventimila rispetto alle 400 che ora son state esposte? Per farne una sede espositiva per nuove mostre: quali ,indirizzate a quale ambito, scegliendo gli stessi criteri di contaminazione spaesante del riassetto appena inaugurato? E in quest’ultimo caso non si rischierebbe di far deragliare ancora di più il museo dai suoi confini, sovrapponendo la sua presenza e la sua attività nel campo del contemporaneo a quella del Maxxi? Come evitare di proseguire su questa rotta di collisione? Stavolta è impossibile trincerarsi dietro le scuse della fretta. Sono decisioni che matureranno tra qualche anno. Almeno su questo è possibile rendere note le eventuali intenzioni e aprire un confronto?