Al Teatro dell'Opera di Roma
Verdi illuminista
Ritorna "Un ballo in maschera” di Verdi in una edizione che recupera l'originaria tensione illuminista e "rivoluzionaria" delle più censurata tra le opere del grande compositore
Fino a domenica 30 ottobre, il Teatro dell’Opera in Roma propone una pregevole edizione di Un ballo in maschera, di Giuseppe Verdi, nuovo allestimento in coproduzione con lo svedese Teatro dell’Opera di Malmö. Non sono frequenti le messe in scena di questo grande titolo. Sia per la difficoltà di reclutare un cast vocale adeguato, con ben cinque personaggi importanti, sia per la moderna complessità del melodramma stesso, che – scorrendo sempre in difficile equilibrio fra i lati tragici, sentimentali, ma anche leggeri e sarcastici della vicenda – richiede a capo un direttore d’orchestra molto esperto della partitura.
La trama prende spunto da un lontano fatto di cronaca. Nel 1792 Gustavo III, illuminista re di Svezia, attivo protettore delle arti e della vita culturale oltre che promotore di riforme sociali, è vittima di un attentato proprio nel corso di un ballo mascherato a corte. Attentato ordito dagli ambienti nobiliari, colpiti nei loro interessi dalle innovazioni introdotte dal sovrano. Già negli anni Trenta dell’Ottocento, in Francia, l’episodio aveva ispirato un melodramma di successo, grazie all’indispensabile aggiunta di ingredienti convenzionali, primo fra tutti un’impossibile attrazione amorosa tra il sovrano e la consorte del suo luogotenente. Tre anni d’intenso lavoro, tra la primavera del 1856 e il febbraio del 1859, costò a Verdi la creazione di questo capolavoro, in fitta collaborazione con l’estensore del libretto, Antonio Somma. La commissione proveniva al musicista da Napoli, Teatro di San Carlo. E qui il severo controllo della borbonica commissione di censura, intransigente rispetto al pericoloso esempio di un regicidio in un paese europeo, impose una tale sequela di vincoli e modifiche, che alla fine il compositore ritirò il proprio impegno. Per cui Un ballo in maschera ha visto la luce a Roma nel Teatro Apollo, sede di altre illustri prime assolute, e demolito a fine Ottocento per il rifacimento degli argini del Tevere. Teatro di cui oggi rimane il ricordo in un’elaborata stele commemorativa, posta quasi un secolo fa sul Lungotevere Tor di Nona.
L’edizione attualmente in scena a Roma, nascendo in collaborazione con un teatro svedese, ripropone l’ambientazione originaria con i nomi autoctoni dei protagonisti. Ma nei fatti la fortuna esecutiva dell’opera ha da sempre consacrato il trasferimento dell’evento nella lontana (per l’epoca) Boston, con altri nomi e cariche, ormai cristallizzati, per i personaggi; e a questi nomi facciamo riferimento. Un’annotazione a margine. Da qualche anno, ormai, i principali teatri d’opera hanno assunto l’ottima abitudine di proiettare, come sopratitoli, non soltanto la traduzione italiana dei libretti in lingua straniera, ma anche i testi delle opere italiane stesse, sobbarcandosi una spesa in più, ma sacrosanta. Silenziosamente, questa piccola grande novità da un lato favorisce gli spettatori nel seguire l’azione, superando lo storico handicap di tempi andati (“quando cantano, non si capisce una parola”), e sta anche avvicinando al teatro musicale un pubblico giovane. Dall’altro lato, rende giustizia alla qualità poetico-artistica dei libretti d’opera, ignorati bistrattati ridicolizzati in epoca moderna, per la difficoltà di percepirli come per l’evoluzione del gusto corrente. Ma sovente, come nel caso dei versi concepiti da Somma per Un ballo in maschera, i sopratitoli ci fanno meditare come ci troviamo dinanzi a creazioni di tutto rispetto. Come disse una volta, alla radio, Franca Valeri: parole bellissime, che non si usano più… E rimangono da antologia, proprio del libretto del Ballo, straordinarî ossimori quali “raggiante di pallor” o “sento l’orma dei passi spietati”.
Tornando all’allestimento romano, va rimarcata la bella prestazione del tenore Francesco Meli nei panni del protagonista, Riccardo. Netto e lucente il suo timbro vocale, sempre omogeneo nel passaggio da un registro all’altro, Meli comunica l’animo aperto e generoso del suo personaggio. Il solo appunto che si possa muovergli è una certa fissità di colori espressivi. Diversa la vocalità del suo braccio destro, Renato, adeguatamente reso dal baritono Simone Piazzola nei suoi accenti di piena lealtà, a volte marziali, e in quelli spigolosi e aspri verso la moglie, creduta a torto adultera. Quest’ultima, Amelia, è affidata a un soprano drammatico di grande esperienza nel suo ruolo, la cinese Hui He. Ma, probabilmente per le precarie condizioni di salute, la sua prova non è apparsa all’altezza, specie nella chiusa della grande aria all’inizio del secondo atto. Una sicurezza, da parte sua, il contralto Dolora Zajick nel ruolo della maga Ulrica, reso incisivamente e con tutti i crismi. E benissimo Serena Gamberoni nei panni di Oscar, il paggio, al quale ha donato tutta la grazia e la leggerezza vocale, nonché la spensieratezza interpretativa, necessarie al personaggio. Incisiva, talvolta troppo, la concertazione messa a punto da Jesùs López-Cobos, direttore d’orchestra. Se questi, da un lato, ha saputo focalizzare un suono di bello smalto quando occorreva, e un fraseggio condotto quasi sempre con eleganza, dall’altro lato ha però stretto i ritmi in alcuni passaggi, come ad esempio nel delicato intarsio degli strumentini all’avvio del secondo atto, sacrificato da uno stacco troppo veloce. Stessa opinabile scelta per il coro dei congiurati, “Ve’, se di notte”, che andrebbe sussurrato e centellinato, per renderne appieno il sarcasmo, e che invece è stato concertato quasi a piena voce. Ma il coro in sé, preparato da Roberto Gabbiani, ha fatto benissimo. Nella bella scenografia di Federica Parolini, con sgargianti costumi di Silvia Aymonino e luci ben dosate di Alessandro Verrazzi, Leo Muscato ha disegnato una regia complessivamente funzionale. Molto calorosi e soddisfatti gli applausi.