Al Palaexo di Roma
Quadriennale senza miti
Ritorna la Quadriennale, ma è solo un miscuglio di suggestioni e provocazioni. Nel nome di Pasolini (ma senza la sua rabbia e la sua poesia): la testimonianza di una grande, danaroso fallimento
Altri miti, altri riti. Si presenta con questo titolo la sedicesima edizione della Quadriennale che torna in scena al Palaexpo dopo 8 anni di letargo, rinvigorita dalla ricca dote di finanziamenti pubblici, 1 milione di euro, sponsorizzazioni private, un altro milione di euro, ed entrature che il nuovo presidente Franco Bernabè, con la sua gestione da manager ben introdotto le ha procurato. E vien subito da fargli le pulci, a questo primo biglietto da visita, perché è una citazione tratta da un testo di Tondelli anni 80, un viaggio attraverso la Romagna di allora per registrarne le vistose mutazioni. Un’eco di controcultura ammiccante, piegato a rimontare la china di oltre un trentennio per fornire una bussola di facile presa ai visitatori. Possibile che a ribattezzare una scena come quella di oggi, segnata da trasformazioni, inquietudini e naufragi a velocità triplicata, si debba riandare così indietro? Ma la risposta è già in quel primo traguardo così ambizioso e sfuggente che questa rassegna si è imposto, perché un mito ha tempi di gestazione lenti, rimanda inevitabilmente a una formazione che affonda nel passato, a figure, azioni, esempi, narrazioni, necessità che vincono o invertono il flusso del tempo. E perché, almeno a mio avviso, quasi nessuna delle 150 opere esposte, quasi nessuno dei novantanove autori chiamati in passerella riesce a restituire al visitatore la sensazione forte della durata, l’immanenza tangibile della profezia.
Non è un caso che, per recuperare aura, il copione, scritto da undici curatori d’ultima generazione e impaginato in dieci diverse sezioni tematiche, chiami due volte alla ribalta uno dei grandi profeti del secondo Novecento: Pier Paolo Pasolini, che molti intellettuali di oggi continuano a corteggiare senza accollarsi la rabbia, la sofferenza, l’inadeguatezza, il senso d’impotenza che questo comporta.
Succede al vernissage d’inaugurazione. Su un palchetto nella rotonda d’ingresso sbuca a sorpresa Ninetto Davoli, l’ex ragazzo di borgata di Uccellacci e uccellini. È travestito in smoking e cravatta , come un maitre d’albergo. Con il sorriso di furba innocenza che non gli è mai scomparso dal volto invita gli spettatori a raggiungerlo: alla signore fa il baciamano, agli uomini riserva una stretta di mano e qualche battuta. La gente ride, finalmente. Ma il fantasma di PPP evocato per interposta persona rabbrividirebbe d’indignazione.
E respingerebbe come un tradimento al mittente anche il secondo omaggio che uno dei curatori, Simone Frangi, gli dedica rubando il titolo della sua sezione, Orestiade italiana, al documentario che il regista friulano girò in Africa, per riadattarlo alla situazione del nostro paese. Due box all’interno della sala, in uno sono appoggiati due libri, nell’altro va in onda un documentario sui migranti africani. Sulle pareti i diagrammi indecifrabili di un filosofo tedesco ingaggiato per l’occasione che dovrebbero rimarcare le differenze tra le migrazioni di italiani primo Novecento e quelle dei profughi in fuga che oggi attraversano il Mediterraneo. Ma l’Italia che chiude gli occhi, volta le spalle e sogna di erigere muri, dov’è? Dov’è il guizzo geniale in forma di poesia con cui Pasolini affidava allo stormir delle foglie l’incalzare delle Erinni sul patricida Oreste?
No, non ci racconta i nuovi miti, questa Quadriennale che ritorna a percorrere dopo tanto silenzio forzato per mancanza di soldi, i tracciati dell’arte contemporanea datata terzo millennio e targata made in Italy. Al più, solo qualche autore che alla mitologia classica si rifà, citandone le icone e trasformandole in punti d’appoggio al proprio Io narciso: ecco Francesco Vezzoli modellare su un corpo d’Apollo la propria testa, o fotomontarla sul fisico di austera pinup di Marlen Dietrich, preso in prestito all’Olimpo di Hollywood. O le isolate apparizioni di qualche maestro ottuagenario sopravvissuto al rogo della memoria: le foto virate di Paolo Gioli che insegue ostinato la soglia del mistero che ancora trattiene simulacri della vita e del corpo; la grande tela bianca istoriata di minime tracce di percorso mentale con cui Gianfranco Baruchello si rivendica tra i padri fondatori dell’arte concettuale, eccentrico ma rigoroso esploratore dei confini tra arte e filosofia, che tanti oggi malamente saccheggiano.
Neppure ad Internet, inspiegabilmente, questa Quadriennale, dedica troppa attenzione, ignorando l’unico grande generatore di epopee collettive che il presente ci ha regalato, e dimenticando i tanti autori che su questo versante di globalizzazione e partecipazione interattiva si stanno cercando linfa e linguaggi: le esperienze sono relegate nel cartellone di contorno , affidate alle voci dei social network. In compenso c’è un gran tripudio di riti. Soprattutto autocelebrazioni, perché è davvero fenomeno massiccio del presente l’autoreferenzialità degli artisti. E quella dei curatori in carriera, la maggioranza di quelli selezionati per l’occasione, che per star sul mercato e governarne la miseria e la sproporzione d’offerta si atteggiano a loro volta a protagonisti creativi. Sommergendo di voci, di spiegazioni in catalogo che spiegano poco o nulla, le voci degli stessi autori. Trascurando persino di favorire l’attribuzione delle opere in mostra: le didascalie con titoli e nomi sono sistemate a casaccio, a volte introvabili, a volte registrate su mappe all’ingresso della sala. Il critico che sostituisce l’artista. Pericolo di sottovalutazione giustamente lamentato da Giuseppe Penone, 70 anni, maestro dell’arte povera, l’unico artista inserito nella giuria che ha scelto gli undici curatori, l’unico che abbia messo a verbale il proprio dissenso.
Anche gli artisti del resto ci mettono la loro. Quanti, troppi, girano alla larga dai temi di impegno, evitano d’indignarsi, di suscitare domande, ancorare angosce se serve. Esemplare l’unico vistoso riferimento al terrorismo e all’atrocità insensata della guerra: un attore in tuta mimetica poi sostituito nelle ore feriali da un manichino che dorme su un divano, il mitra posato a terra. «Bravi questi artisti. Non nascondono il mondo reale. Ma mai lo evcano in modo urlato e scomposto. Solo così si fa opposizione costruttiva», applaude in cabina di regia Franco Bernabè.
E poi altri artisti che si misurano, anche in modo esteticamente gradevole, con l’impalpabile. Come fa con il suo suggestivo intreccio di traversine Michele Spanghero: nella cavità del legno è celato un registratore, se accosti l’orecchio cogli un vago brusio. Giocano sul futuro come sulla tastiera dell’invisibile. Come fa Lara Favaretto, esponendo tre croste da bazar cinese coperte da fili rossi: col tempo i fili sono destinati ad usurarsi e il niente che c’è sotto riappare. Come fa Marcello Maloberti con la sua istallazione «Himalaya», gettonatissima dai cacciatori di selfie: un giovane ritaglia figurine di divinità e paesaggi orientali e cosparge il pavimento d’immagini di cartacce che il calpestio dei visitatori dovrebbe disperdere e rimontare a caso. Vallo a dire ai custodi del Palaexpo che ogni sera spazzano e ripristinano quel lago di cartacce. Come fa con studiata malizia una giovane filmaker (la didascalia con il nome era introvabile) che fascia una stanza con quattro schermi su cui scorrono immagini di divani che sobbalzano e oscillano: ogni tanto sbucano piedi nudi a spiegarci che in quell’interno semovente una coppia sta allegramente scopando. E allora?
Ma, sì, ci sono anche opere da riderci su. E alcune, con sorrisi intinti nel kitsch, ci portano magari una parvenza di messaggio e stupore. Come le due cornici ridondanti da flipper nella quali con un programma di animazione al computer incolonna le immagini a cartone animato di due trionfatori, Washington e Giulio Cesare. È tra le poche esplicite opere che documentino l’uso di nuove tecnologie, insieme alla grande statua di Laoocoonte su cui il milanese Quayola ha assemblato, a simulare il guizzo dei serpenti, moduli e volumi geometrici stampati a tre dimensioni dal computer.
Praticamente assente la pittura che evidentemente è scartata come mitologia fuori moda. Un paio di presenze fra cui spicca un ritratto di martire che Nicola Samorì ha inciso e dipinto su un fondo di rame increspato da aggetti metallici.