La rassegna romana "Le vie dei festival"
Musella & Shakespeare
Lino Musella interpreta i Sonetti “traditi e tradotti" da Dario Iacobelli. Una grande prova d'attore per dare corpo e fisicità alla più rarefatta poesia che Shakespeare ci abbia lasciato
Prima che il protagonista compaia in scena arriva la musica a schiudere atmosfere malinconiche e struggenti. Mobili affastellati sul fondo, un cappello e dei fiori poggiati su una scala/pedana centrale, un tavolino da trucco con specchio e parrucca bianca di lato: sono questi i confini di una recita dei sentimenti che ben presto smarginerà ben oltre lo spazio circoscritto del palcoscenico, della lingua, delle scansioni temporali, stilistiche, geografiche. Perché in L’ammore nun’è ammore Lino Musella – già apprezzato interprete di lavori come Hamlet per la regia di Andrea Baracco e del Natale in casa Cupiello firmato da Latella, nonché noto volto della serie tv Gomorra – ci regala un viaggio nella parola poetica shakespeariana reinterpretata, però, in un napoletano teatralissimo. Quello cioè dei trenta sonetti “traditi e tradotti” da Dario Iacobelli (scomparso tra anni fa) e pubblicati postumi dalla casa editrice partenopea ad est dell’equatore con un “ricordo” di Peppe Barra.
Un viaggio che prende sotto braccio questo dire dialettale e insieme sublime («E io t’essa dicere ca tu si comm’’a na jurnata ‘ra staggione? / Tu si assaje cchiù doce e temperata: a Maggio e ciur’ piccirilli so’ moss’ ’a nu vient’cafone, /e ‘o piggione ‘e l’estate dint’ ’a nu par’e mis’scade») per renderlo materia fisica di vibrazioni ed energie fisiche capaci di anticipare, commentare, allargare le immagini sbucate fuori dai versi stessi, enfatizzandone le sottigliezze ironiche, i toni grotteschi, la matematica musicalità. Tanto che le parole tagliano l’aria, sembrano chicchi di grandine gelata, mentre il corpo e il viso dell’attore attraversano con plastica malleabilità tutti gli stati d’animo possibili, tutti i sussulti d’amore immaginabili: «O specchio mio nun me cunvince ca songo viecchio, /’nfino a che tu e ‘ a gioventù tenite ‘a stessa età;/ ma si t’essa vedè e sign’ do’ tiempo sott’a l’uocchie,/ allora io prego ‘a morte e nun me fa cchiù campà […]».
Accompagnato dal vivo da Marco Vidino ai cordofoni e alle percussioni, Musella sembra un guitto che ha ben a mente la maestria dei comici dell’arte, il ritmo mai insipido della grande commedia partenopea (quell’alternanza significativa di silenzi e parole, vuoti e pieni, così sublime in Eduardo o in Servillo), le declinazioni barocche della sceneggiata, i registri doppi e multipli della farsa. E quando fischietta volteggiando sul palcoscenico, quando guarda, ammiccando, il balcone dell’amata, quando si cambia d’abito a vista, quando si benda gli occhi con un nastro nero, quando si avvicina alle prime file della platea e parla agli spettatori sussurrando loro in un orecchio attraverso un tubo, quando si traveste da vecchio e canta l’agonia del tempo che passa senza scalfire i ruggiti di Eros, ci tiene incollati a quel dire così universale e vero e bello che resta universale e vero e bello anche nei passaggi più difficili, più oscuri. L’Amore diventa una verità concreta, fisica, vicina, quotidiana: in definitiva, teatrale. Ma appunto perché teatrale, estremamente e – paradossalmente – lirica: sospeso con i piedi che penzolano dall’alto di un ballatoio metallico che sovrasta la sala del Vascello (dove il lavoro ha debuttato all’interno de Le vie dei festival 2016), egli ci racconta in pochi istanti tutta la fragilità dell’essere umano. La pièce (assolutamente da non perdere) forse sarebbe potuta finire lì, perché in quell’essere dentro e fuori, sopra e nel contempo dentro i nostri cuori, quelle parole sembrano cadere dalla voce di un angelo per riportarci ad un grumo di verità senza tempo: «…a vita mia vale sulo pe’ ‘sta poesia ca t’aggio scritto / e semp’a mente ammore mio te restarrà. / e quanno ‘a lieggi e io nun ce stongo cchiù / ricuordat’e me, ‘e chello ca t’aggio dato / ‘a terra se piglia ‘o cuorpo, ma ‘o cuorpo nun si tu / tu si l’annema, e tu ‘e chell’annema t’e nnammurato. […] Nun songo ‘o cuorpo, ma chello ca ncuorpo nun se vede e ce sta / Ij songo ‘sta poesia e l’annema mia co ‘sta poesia te restarrà».
Dalla parola poetica alla parola politica della compagnia messicana “Lagartijas tiradas al sol” che nei giorni scorsi, sempre al Vascello e anch’essa ospite della vetrina romana diretta da Natalia Di Iorio, ha presentato Tijuana – la democrazia in Messico (1965-2015), un lavoro minimale ed essenziale in cui un solo attore, Gabino Rodriguez, osa un felice esperimento di teatro realistico, in odore di reminiscenze brechtiane, di narrazione storico-biografica e di intarsio tra performance dal vivo e immagini video. Potremmo definirla un’operazione di “meta-meta teatralizzazione” della verità. La vicenda, raccontata con pacata epicità nel monologo, è infatti costruita su un episodio reale della vita dell’interprete: un cambio di identità temporaneo che lo ha spinto a fingersi operaio per sei mesi in una fabbrica della città della bassa California per sperimentare sulla propria pelle cosa significhi vivere – tentare di sopravvivere – con un salario minimo (condizione in cui si trovano ben 50 milioni di messicani). Gabino è vestito in modo semplice, ripete una serie di azioni altrettanto semplici mentre il pubblico prende posto in sala. Alle sue spalle giganteggia un dipinto a colori accesi che rappresenta proprio Tijuana e pochi altri elementi riempiono la scena: qualche mattone, delle bottiglie di birra, uno schermo, qualche piantina. D’altronde è il racconto la tessitura fondamentale di questo lavoro. Un racconto distaccato, scorrevole, privo di enfasi, durante il quale Gabino si spoglia del suo ruolo di “attore” per diventare Santiago Ramirez. La vita vera si sostituisce dunque alla finzione drammatica. O meglio ne costruisce – coraggiosamente – la ragion d’essere. Gabino/Santiago guadagna pochissime pesos al giorno, annota ogni minima spesa in un diario, affitta un piccolo appartamento dentro una “colonia” della zona “C” della città. Conosce nuovi amici, impara persino a ballare una strana danza a metà strada tra la break e il folklore. Ma la sua esistenza si fa dura, durissima. Vediamo scorrere in video immagini dell’area metropolitana di Tijuana, poi brani di un’intervista in cui Rodriguez riferisce dettagli ed esito di quella rischiosa esperienza lavorativa. Il tutto viene forsennatamente concettualizzato, visualizzato in mappe, schemi, appunti. Eppure questa narrazione all’apparenza così lineare e asciutta possiede una linfa vitale che la giustifica e la determina perché qui la biografia riscrive il teatro, si fa testimonianza storica, recriminazione sociale, rivolta politica. Non c’è spazio per effetti speciali, fronzoli, invenzioni artistiche. Anche l’uso del corpo (così magro e minuto), la mimica, i passi di ballo sono schematici, brevi, quasi rallentati. Si avverte un certo amore per i codici espressivi del mimo, oltre a un sapiente uso del video, ma nel complesso l’interprete mira a restituire un’autorappresentazione biografica che dalla vicenda personale diventi, senza didascalismo né demagogia, teatro di impegno civile. Tutto ciò che viene detto/mostrato è reale (tanto da ricordare un film inchiesta molto significativo come Super size me di Morgan Spurlock) e proprio in questo corto circuito tra esperienza di vita ed esperienza creativa si condensa la forza di una pièce che, diretta dallo stesso Rodriguez in collaborazione con Luisa Pardo e passata in Italia già a luglio scorso (Inteatro Festival di Ancona), può vantare una sua robusta originalità.