A proposito di "Elogio della fragilità"
L’arte della fragilità
Roberto Gramiccia “dialoga” con la morte (e con la paura) spaziando dall'impegno politico alla trasgressione artistica. Convinto che vivere sia sempre una scommessa per sopravvivere
La debolezza come leva per cambiare il mondo. È il paradosso cui Roberto Gramiccia ha consacrato la sua vita a tante facce: medico, giornalista, scrittore, collezionista d’arte e curatore. E a cui ora dedica un pamphlet, Elogio della fragilità, pubblicato da Mimesis (122 pagine, 12 euro). Attualissimo nella sua voluta inattualità: perché invoca la lentezza contro la rapidità che governa il mondo globalizzato, la profondità del sentimento e delle convinzioni contro il culto sempre più sovrano della superficie, la resistenza contro la resa, il senso inesorabile della morte contro i deliri scatenati dalla sua rimozione, il ritorno ai valori fondanti dell’uomo contro la mercificazione di ogni aspetto della nostra esistenza.
Un libro coraggioso perché nasce dalla paura. E ne dà ampia confessione nelle pagine autobiografiche che sono il prologo della sfida teorica, alla quale Gramiccia cerca di avvicinarci. La sensazione d’abbandono che lo assalì da piccolo a risvegliarsi solo in piena notte nel letto dei genitori usciti per portare all’ospedale la sorellina malata. La scoperta dell’ingiustizia e della disuguaglianza davanti alla vetrina di un negozio di scarpe, lui, un figlio di buona famiglia, accanto a un altro ragazzino malmesso che pregava invano il padre di comprargli delle scarpe nuove e si sentiva rispondere “non ho i soldi”. Le prime esperienze di militanza nella sezione Torpignattara del Pci, la rabbia contagiosa del ’68 vissuta da leader di quartiere, le sue esperienze di studente di medicina alle prese con la prima autopsia. E poi la carriera di medico vissuta come una missione sociale con una coscienza sempre più critica verso una pratica che a poco a poco perdeva la misura pervasiva e a tutto tondo dell’uomo per rifugiarsi nel distacco dello specialismo, dell’ottusità burocratica e della frammentazione della terapia. Una scuola di sofferenza e dolore che ha continuato a rafforzare il suo impegno. E la certezza che quelle fragilità che i suoi pazienti gli svelavano e che moltiplicavano gli echi delle sue debolezze potevano spesso sprigionare una forza incredibile.
Pagine spesso toccanti che però Gramiccia annega in una concisione da saggista, evitando di trascinarci nella sua narrazione con l’impeto e la sincerità nuda che invece riserva alle sue teorie e alle sue convinzioni politiche. Un po’, certo, un comprensibile sussulto di pudore. Un po’ il cercare appoggio comunicativo in una sorta di distacco brechtiano. Ma soprattutto la difficoltà di mettere davvero sul tavolo d’anatomia del suo tragitto di crescita, d’iniziazione e poi di attivismo politico, il grumo di paura che lo accompagna. Lo sconcerto indifeso rispetto alla morte che gli danza sulla spalla come una invincibile, inesorabile profezia. E che ora, da quando ha superato i sessant’anni, lo spinge a contare i giorni davanti, sempre di meno, e a cercare conforto in quelli che si è lasciato alle spalle e in cui ha cercato e trovato tregue e riparo provvisori per se e per le comunità di combattenti fragili in cui si riconosce. Da lì nasce l’ansia sotterranea che lo spinge a scrivere libri, a lasciare tracce del suo pensiero. La stessa ansia di sopravviversi da cui è nata la sua passione per l’arte e la sua vocazione di collezionista, che ha cominciato a rendere pubblica con insistenza rivelatrice: pochi mesi fa una mostra al Museo Bilotti per esporre i tesori della sua raccolta, in questo fine ottobre una seconda rassegna, «Ricapitolando», messa in scena nella galleria Plus arte puls di viale Mazzini con le opere prestate dagli artisti entrati nella sua orbita di curatore e organizzatore di personali e collettive a tema, lungo una scia avviata con successo e prestigio venti anni fa.
Già, l’arte, territorio per antonomasia di fragili grandi eroi, Don Chisciotte in armi contro i mulini al vento, gli ambasciatori più consapevoli di quella disperata battaglia con la morte cui Gramiccia attribuisce la nascita stessa e la verità ultima di ogni opera d’arte dai primi graffiti nelle caverne ai giorni nostri. Tempi grami per ognuna delle idee, delle passioni sui quali il nostro autore ha investito tutta la sua vita. Politica, medicina, arte: mestieri nobili e universi contigui colpiti dal contagio della mercificazione, precipitati in quel gorgo del pensiero debole e del profitto con cui il capitalismo neoliberista ha camuffato la sua vittoria e la sua attuale tirannia spacciando come unico e miglior mondo possibile l’inferno di orrori, soprusi, diseguaglianze che ha costruito sul naufragio delle grandi narrazioni del passato. Il futuro? È nelle mani degli uomini fragili e oppressi – ci dice Gramiccia – se sapranno far tesoro del loro tallone d’Achille e prendere stimolo ed esempio dai grandi maestri della sofferenza, da Leopardi a Spinoza, da Caravaggio a Bacon, che hanno rimodellato l’insufficienza e il dolore in fantasia creativa e ribellione. Ognuno a suo modo ma riconoscendosi come comunità. E cominciando da subito a riconquistare campi d’azione. Senza rinviare l’impresa a tempi migliori.