Verso le presidenziali Usa
L’America distratta
Tra dibattiti, scandali, parole forti e idee scarse, le elezioni per la Casa Bianca stanno dimostrando una scollatura totale tra istituzioni e realtà. Un distacco che neanche la stampa riesce a leggere
In questa eterna campagna elettorale che ogni giorno registra nuovi colpi di scena ci sono un paio di considerazioni che, specie osservando gli ultimi dibattiti tra i candidati alla presidenza e quelli alla vicepresidenza, balzano agli occhi con una certa chiarezza. A confermare la gravità della situazione ci sono adesso, a poche ore dal secondo dibattito tra i due candidati, le imbarazzanti dichiarazioni sessiste di Trump del 2005 che rendono difficile per gli stessi repubblicani sostenerlo a tutto campo. Si sta parlando addirittura di chiedergli di lasciare la corsa presidenziale. Tutto ciò non fa altro che confermare le preoccupazioni che si nutrono un po’ ovunque riguardo a queste elezioni.
La prima considerazione parte da una riflessione certo non nuova sulla totale mancanza di connessione tra i candidati e gli elettori. E non è solo basata su quell’autenticismo di cui parla Mark Thompson nel suo saggio menzionato più volte Enough Said: What’s Gone Wrong With the Language of Politics?, ma sulla decadenza della retorica politica in tutto il mondo occidentale. Che tende a far apparire parte della massa un’élite che invece ne è distante anni luce. Uno scollamento che, va aggiunto, comincia dai meccanismi di selezione dei candidati da parte dei rispettivi partiti. Non si può certo dire infatti che il partito repubblicano tra i numerosi pretendenti che si sono presentati non ne avesse a sua disposizione uno migliore di Donald Trump o che nel partito democratico la scelta obbligata fosse Hillary Clinton. Di alternative ce n’erano. Anche se ad oggi sono chiari da ambedue i lati quali siano stati motivi che hanno portato al presente. Un presente che preoccupa se di recente 30 ex-parlamentari repubblicani in una lettera aperta hanno dichiarato che non solo non voteranno per Trump, ma che una parte di loro voterà addirittura per Hillary Clinton. Ad essi si sono aggiunti adesso, dopo le dichiarazioni sessiste di Trump, altri 16 repubblicani. E d’altra parte tra i democratici alcuni non voteranno per Clinton. Sta di fatto che si sono scelti due candidati che non sembrano rappresentare le rispettive constituency: uno lontano dalla politica e da possibili soluzioni razionali ai problemi del paese e l’altra lontana dal sentire popolare e da quell’empatia e partecipazione che personaggi come Obama, ad esempio, riescono invece a suscitare. Dunque i meccanismi di selezione della classe politica da parte dei partiti sono chiaramente inadeguati alle sfide che i tempi correnti ci presentano. Non ultima quella di Internet, a cui le nuove generazioni si rivolgono, e quella della sfiducia crescente dei cittadini nei confronti di coloro che li dovrebbero rappresentare C’è uno scollamento totale tra il sentire quotidiano della gente e i politici di cui non ci si fida più e da cui non ci si sente più rappresentati.
In seconda istanza, il modo di raccontare la politica da parte della stampa, soprattutto televisiva, è così cambiato e così contraffatto che si sono persi completamente, con buona pace di Putin, i parametri generali di riferimento della politica: a che cosa serva, la sua importanza, come se ne debba parlare. Soprattutto in riferimento al fatto fondamentale che in una democrazia la politica dovrebbe rappresentare la cosiddetta volontà popolare e dunque raccontarla dovrebbe significare dare importanza ai programmi e alle possibili soluzioni ai problemi reali del paese.
Ma questa logica dell’ovvio non è più un elemento fondamentale a cui si rifacciano i politici di professione e tantomeno i giornalisti che ne parlano. Mi rendo conto che quest’accusa alla stampa può superficialmente accostarsi alle critiche che Donald Trump muove alla stessa. Il suo motivo però è legato semplicemente al fatto che non presta sufficiente attenzione alle sue parole o che viceversa quando se ne presenta l’occasione cerca di metterlo in difficoltà. Che, vista la situazione, è più da considerarsi una qualità che un difetto. La mia è una critica diametralmente opposta a questa. Si riferisce, infatti, soprattutto all’incapacità dell’informazione televisiva, che per anni si è nutrita superficialmente degli aspetti più frivoli, più da showbusiness che da giornalismo professionista, di raccontare con serietà le notizie, soprattutto quelle politiche. Un pericolo che esiste anche in Italia e che Enrico Mentana, ad esempio, denuncia e paventa spesso.
E che le cose stiano esattamente così mi è apparso chiaro quando ho seguito in tv gli ultimi dibattiti, specie quello tra i candidati alla vicepresidenza. La differenza tra i due mi è apparsa subito evidente. Tim Kaine è stato assolutamente superiore al suo avversario Mike Pence, mentre ho invece sentito dire da Jake Tapper, giornalista stimato della CNN, Chief Washington Corrispondent con molti anni di professionalità alle spalle, che lo scambio tra i due aveva registrato una netta predominanza del candidato repubblicano. Il motivo di questo giudizio da parte di Tapper: Kaine aveva interrotto più volte il suo avversario, era apparso più nervoso, mentre l’altro con un fare di sufficienza si era mantenuto calmo, sorridente e anche un po’ accondiscendente. Era stato superiore nello stile. Aveva mantenuto un aplomb perfetto. Il fatto è che quel dibattito non era uno spettacolo di bon ton: era una kermesse politica, dove si dovrebbe parlare dei problemi reali per trovarne la soluzione e dove si deve cercare di dimostrare che il proprio programma politico è migliore di quello dell’avversario. È dunque chiaro che c’è una competizione, una tensione tra i candidati che qualche volta nell’enfasi del dibattito si parlano uno sopra all’altro. Est modus in rebus però. Il paragone naturale con i talk show della politica italiana è inevitabile. In questi ultimi si assiste a un ambiente da pollaio dove tutti si parlano addosso e non permettono a nessuno di capire nemmeno agli interlocutori: anche questa è una strategia che dimostra lo scollamento tra elettori e politici che si disinteressano a che la gente possa capire il loro argomentare, mentre i giornalisti molto spesso incoraggiano le zuffe, perché aumentano l’audience. Nel caso di Kaine le interruzioni si sono limitate a un paio nel corso di tutto il dibattito e sono avvenute solo inizialmente. Forse perché il candidato era nervoso, cosa anche comprensibile. Mi rendo perfettamente conto però che questa non può essere una giustificazione. L’errore c’è stato. A me tuttavia nella sostanza è parso evidente che Kaine avesse non solo dominato il dibattito, ma soprattutto spiegato nei dettagli il programma politico dei democratici e avesse posto domande a Pence su Trump a cui il candidato repubblicano non ha risposto. Non solo ma alla richiesta di spiegazioni precise su temi controversi come la politica estera o quella sull’emigrazione, Pence non si è sentito neanche di difendere a spada tratta le posizioni assunte da Trump.
A dispetto di ciò per tutta la serata e il giorno successivo si è parlato della brillante performance di Pence. Cosa che mi ha decisamente preoccupato in quanto mi ha fatto dubitare della mia sanità mentale, ma mi ha anche fatto riflettere sul perché una cosa talmente evidente fosse stata negata. Mi è parso così di scorgere una strategia sottile nella politica dei canali televisivi: se i due candidati appaiono lottare fino all’ultimo respiro sul filo del rasoio c’è una tensione continua che rimane presente e che può essere munta 24 ore su 24 dalle news per mantenere l’interesse sempre vivo. Un modo deteriore di fare informazione portato alle stelle da Roger Aisles quando assieme a Murdoch ha fondato il canale d’informazione Fownews basato principalmente sull’incremento del sensazionalismo, della partigianeria e della superficialità travestiti da giornalismo. Con il risultato di un vivo aumento dello sharing capace di esercitare un’influenza nefasta sugli exit polls e allo stesso tempo di un enorme abbassamento del tenore della democrazia americana.