Dentro il labirinto di un mito
La verità su Borges
A proposito de "Il fattore Borges" di Alan Pauls: una sorta di inchiesta totale sulla vita e l'opera di un genio che ha passato il proprio tempo a nascondere la propria vita e la propria opera
È arduo ma anche affascinante descrivere l’Omero dell’Argentina. Eccellente impresa è quella d’uno della sua terra, critico e scrittore, Alan Pauls, autore di Il fattore Borges (edizioni Sur, 166 pag., 16 euro). Detto tra parentesi, “Sur” era una gloriosa rivista letteraria argentina. Al pari di Kafka, il suo nome è diventato, anche per i poco colti, un aggettivo: “borghesiano”,”kafkiano”. Pauls, vivisezionando un insetto geniale nei meandri, anzi nei labirinti tanto per restare nel lessico borgesiano, di un narratore-saggista-poeta (a mio personale parere il più grande intellettuale-narratore del Sudamerica, prima di Gabriel Garcia Marquez e-Juan Carlos Onetti) descrive «il timido e disinteressato topo di biblioteca che si è tramutato in uno stratega tortuoso». Scrive Pauls nell’introduzione: «Lo scrittore d’élite abbraccerà la cultura imbastardita della divulgazione; e il paladino dell’originalità confesserà senza il minimo rossore di non essere altro che un consumato artista del furto. Forse così la letteratura tornerà a regalarci la vertigine dell’effrazione». Accantoniamo la tesi del furto e, per comodità, riferiamo dello studio (in pagine con una grafica del tutto nuova) di Pauls procedendo per voci.
1) Borges affermò, e lo ribadì in alcuni periodici, di essere nato nel 1900. Non è così: nacque un anno prima, ma la bugia era funzionale all’idea del secolo nuovo, promessa di orizzonti diversi. In ogni caso Borges tiene ad essere ancorato alla terra argentina, anzi coltiverà il culto per gli antenati “criollos” che, annota Pauls, «assomiglia a un cerimoniale malinconico, a metà tra la protesta (per l’alterazione profonda che subisce l’identità argentina) e lo sconforto (per l’estinguersi dell’Argentina “vera”). Contrariamente ad altri suoi colleghi che dissimulavano un passato europeo puntando sulla verginità del futuro, B. è uno dei pochi che ancora ricorrono all’albero genealogico come capitale, riserva di valori, argomenti di autorità, e anche garanzia di una certa condizione letteraria». Borges non nasconde nulla, anzi: ha due lignaggi distinti, insieme opposti e complementari. Sua madre, Leonor Acevedo, ha antenati spagnoli. Il padre Jorge Guillermo (avvocato anarchico e psicologo) era anglofilo fino all’osso.
2) Verso il padre, Borges non fu mai insolente e mai ribelle. Si considerava figlio riconoscente, per l’esattezza indebitato (lo scrive nell’Abbozzo di autobiografia). Dal padre erediterà i gravi problemi di vista, la passione per i testi e le enciclopedie britanniche, ben ricordando che uno degli avi, il nonno materno, era l’inglese Edward Young Haslam, editore dei primi giornali inglesi dell’Argentina. Tutto questo non frenò Borges padre quando si domandava: «Dopotutto che cosa sono gli inglesi? Nient’altro che una turba di contadini tedeschi». Per Borges la non-famiglia è uno scenario di manifestazioni quanto piuttosto un ambito nel quale è possibile tacere, serbare e ricordare le cose in silenzio, agire e dire per omissioni, persuadere o influenzare gli altri per vie oblique dell’”implicito”. E ancora, quando venne colpito dalla cecità, confida che « Rimase tacitamente inteso che io dovessi portare a compimento il destino letterario che le circostanze avevano negato a mio padre». Occorre aggiungere che il padre non dette mai «consigli diretti». Il genitore, professore di psicologia, consigliò al figlio di otto-dieci anni «i paradossi di Zenone, con l’aiuto della scacchiera» e rudimenti di idealismo senza mai citare il nome di Berkeley. Insegna senza dare l’impressione di insegnare. Borges la chiamava, questa, “inferenza”. Più in là nel tempo, Borges considerò l’inferenza, anche nel genere poliziesco, lo strumento logico per eccellenza dell’ansia di sapere. Quando a Ginevra, dopo l’esame di maturità, il padre decise sul suo debutto sessuale con una prostituta. Secondo quanto scrisse l’amica dello scrittore, «Borges non riuscì a togliersi dalla mente il pensiero che stava per condividere l’amante con suo padre».
3) Che cosa fu la cosiddetta “argentinità”? Borges era fortemente irritato dal culto argentino per il “colore locale”, quel «recente culto europeo che i nazionalisti dovrebbero respingere in quanto forestiero». In un saggio del 1951, B include un libello contro la mania del pittoresco. Lo scrittore di Buenos Aires si scaglia contro il pensiero nazionalista, che confonde l’artificiosità di un genere letterario con l’autentica spontaneità della parlata popolare. Scriveva: «Le pene d’amore e dell’assenza, il dolore dell’amore sono trattati dai poeti “gaucheschi” che coltivano un linguaggio deliberatamente popolare, mentre i cosiddetti poeti popolare non tentano». E ancora: «I segni del colore locale… lessico regionale voluto… non fanno che rendere palese la loro intenzione, dimostrando che chi canta o scrive non è il popolo, perché il popolo non ha motivo di mostrare i segni di essere quello che è… ma qualcuno che vorrebbe usurparne il posto, e che per farlo esibisce i segni visibili che crede caratteristici dell’usurpato». Borges, a proposito della “tesi dell’autenticità”, afferma che non può essercisi autenticità intenzionale». E a questo punto il coltissimo Borges ci diverte con questo paragone: nel Corano, libro arabo per eccellenza, non ci sono cammelli: «Io credo che se ci fosse qualche dubbio sull’autenticità del Corano, basterebbe questa assenza dei cammelli a provare che è arabo». In altri termini perché mai il Corano dovrebbe insistere sui cammelli, che fanno parte di quella realtà. Un turista, o un falsario, come prima cosa li metterebbe in evidenza. «Maometto, in quanto arabo, era tranquillo: sapeva di poter essere arabo senza cammelli».
4) Borges coltivava strenuamente il pudore. «Cerco di passare il più possibile inosservato, di essere invisibile». Per far questo, precisava, basterebbe vestirsi con un po’ di cura. La teatralità e l’esibizionismo degli argentini lo urtavano. Discettando di intimità, Borges ricorda il rapporto tra suo padre ed alcuni suoi conoscenti: «Una di quelle amicizie inglesi che cominciano con l’escludere la confidenza e che ben presto omettono il dialogo». Ironia labirintica, ancora una volta. L’«entre nos» borghesiano sostituisce l’esibizionismo trionfalista con una resistenza strategica. L’essere argentino spaccone, insomma, forma «l’arte sociale del dandy».
5) A riguardo della letteratura, fino a un certo periodo, scrive Pauls, aveva sfruttato la tensione tra due poli: Una scrittura satura (testi “densi”, di grande pregnanza retorica, che presupponevano l’esistenza di una rete infinita di letterature) e una specie di letteratura “subalterna” (testi “parlati”, prosodici, la cui semplice esistenza presupponeva una situazione orale- una conversazione- e la ricostruzione di un mondo perduto». Questo è in qualche modo coerente con la sua passione per l’Enciclopedia Britannica, suo testo “sacro”. Borges poi cade sotto il dominio fonetico. Non a caso il titolo di uno dei suoi ultimi libri è Borges oral. Vale la pena citare alcune sue frasi: «Il piacere obbligatorio dei libri»; «La finalità della letteratura è raggiungere destini»; «È necessario perdere, sperimentare la nostalgia». In altri testi, Borges alla domanda cos’è la letteratura, rispondeva: «Non è niente; nel migliore dei casi può essere, semplicemente, un luogo di apparizione del poetico». Sulla poesia, lo scrittore argentino affermava: «Non so nemmeno che cosa sia la poesia, anche se sono bravo a scoprirla ovunque: nella conversazione, nelle parole di un tango, nei libri di metafisica, nei detti popolari e addirittura in alcuni in alcuni versi». Il leggere – abitudine morbosamente costante in tutta la sua esistenza – significava imbattersi in se stessi. Infine: «Leggere implica un circolo paradossale: passare dalla differenza assoluta per poi scoprire l’assoluta identità». Pensando all’amato Cervantes, e l’influenza di certe sue pagine è visibile nei suoi libri, Borges diceva: «Già Cervantes, che forse non stava a sentire tutto quello che diceva la gente, leggeva perfino “la carta straccia per strada”». Il Don Chisciotte era una sorta di “lettura dipendente”.
6) Borges celebrava “l’apoteosi del minore”. Andava cercando «quei monumenti minimi, esposti al punto da essere invisibili». Una sera camminava senza meta (sua abitudine) per il quartiere di Barracas, evitando «le strade ampie», e una sorta di «gravitazione familiare» lo spinse verso i dintorni di Palermo, il quartiere della sua infanzia. «Sulla terra torbida e caotica, un muro rosato sembrava non ospitare luce di luna, ma effondere luce intima. Non si potrebbe nominare la tenerezza meglio che con quel rosa». Sovente diceva di sentirsi morto, in morte, «percettore astratto del mondo».
7) Quanto adorava le enciclopedie. È su questo che occorre insistere per comprendere meglio Borges. A sei o sette anni, con «un inglese piuttosto scarso» legge un manuale di mitologia greca. Ma l’enciclopedia, scrive Alan Pauls, non fu per lui esattamente un libro. Semmai “il Libro dei Libri”, una sorta di summa culturale pagana, «una modalità di funzionamento». L’enciclopedia è per il modello del libro borghesiano: un libro-biblioteca, un libro che riproduce su scala ridotta, in un formato relativamente portatile, la logica che regola il funzionamento di una biblioteca. «Per un uomo semi-colto come me, dall’enciclopedia si impara molto. Se dovessi vivere in un’isola deserta, mi porterei un’enciclopedia». Enciclopedia e biblioteca (Borges fu nominato direttore di quella di Buenos Aires): la prima è l’idea-tesoro, l’ archivio, una certa idea di accumulo e della conservazione: entrambe aspirano alla totalità e all’universalità. In biblioteca B. si sentiva al riparo in biblioteca. Assieme all’enciclopedia lo poneva sull’orlo dell’instabilità, che esiste tra ordine e caos, necessità e caso, ragione e insensatezza. Al pari di Kafka, ansioso di sparire nelle sue notti solitarie, Borges cercava l’invisibilità.