Giuliano Compagno
Una voce fuori dal coro delle "vedove"

La camicia di Fo

L'altra faccia della medaglia Dario Fo: un grande attore dalla maschera un po' noiosa. Un milanese felliniano baciato dalla fortuna. Ma anche questa, in fondo, è una dote unica...

Non è che ci si senta in dovere di giudicare un defunto. Anzi, sarebbe quello il momento migliore per astenersi, quasi che il giudizio della morte fosse intervenuto, in via definitiva, a tacere quello dei sopravviventi. Eppure, la commemorazione di un Artista è l’espressione alta di un dolore comunitario, sebbene vada resa con grande accortezza. Ad esempio è assai meglio smarcarsi da qualsiasi attacco volgare. I morti non si offendono mai. Con loro si disperdono in forma naturale quegli errori bassamente umani che in apparenza ne avrebbero sporcato la biografia. Nel caso di Dario Fo, quella collettiva di una generazione allevata a concepire più nemici che compagni.

Si tratta di una bruttissima memoria, che va rimossa per il bene di tutti e perché in ogni caso è il tempo che pensa a scolpire le statue nel modo più somigliante. Tanti anni dopo – e non è una similitudine – il Martin Heidegger che cancella la dedica al suo Maestro per ingraziarsi i nazisti, ci appare, alla giusta distanza, un piccolo uomo. E allora quale sarà davvero il ricordo immediato di un artista? Quello di una condivisa pietà umana? Di un temporaneo oblio? O magari della testimonianza personale di chi l’aveva conosciuto, apprezzandone le doti di semplicità che non si immaginava (e invece avrebbe dovuto)… Forse, commemorare un artista è innanzitutto rispettare il parere e il gusto difformi di chi oggi definisce Fo un genio.

Intendiamoci, nulla significa affermare questo o il suo contrario, perché si tratta di una contesa priva di oggetto. E per quanto non si taccia la critica in nome del lutto, la sua espressione suona addolcita dalla morte, che chiude un lungo atto. Il pubblico che osanna o svicola siamo noi stessi. E nell’avvicinarmi al guardaroba, mi dolgo della scomparsa di questo bravo attore. È un sentimento che ho sempre provato, continuo a farlo anche stasera. L’altro che si congeda va comunque salutato con rispetto. Rientrando in me, decido: scriverò poche righe anch’io. Ad esempio, cercherò di dire con grazia che non l’ho mai amato, Dario Fo. Mai. Mi annoiava come autore, mi intristiva come maschera, trovavo che non riuscisse a toccare né la metafisica né l’antropologia. Alcune sue posizioni pubbliche mi erano risultate, più che indigeste, quasi indegne. Inoltre, benché ne fossi stato lieto come connazionale, avrei via via contato decine di letterati assai più meritevoli di un Nobel, Bob Dylan compreso.

E persino credo che questa coincidenza, dei due “strappi” accademici che si incrociano in una data tanto evocativa, sia stata l’ultima dimostrazione di quanto Fo sia stato artisticamente fortunato, cresciuto in un ambiente intellettuale a cui non apparteneva, a fungere da côté tardo-milanese di quella Roma felliniana che almeno aveva rappresentato un dopoguerra, qualunque fosse. Insomma io adoro i miracolati, sono figure comiche e tragiche allo stesso tempo, proprio com’è stata quella di Dario Fo. Nel dire addio, si piange e si scherza un po’, com’è giusto che sia per ogni gioco delle parti. Con lui se ne va un po’ della nostra buona sorte e la camicia con cui era nato. Con affetto sincero.

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