Alberto Fraccacreta
L'elzeviro secco

Il nome della cosa

Che senso ha rivelare il nome di uno scrittore annullandone, come avrebbe scritto Wilde, quello che più «scalda il cuore»? Qualche riflessione in margine al caso Elena Ferrante

L’identità di Elena Ferrante sembra sia stata svelata: Anita Raja, moglie dello scrittore napoletano Domenico Starnone, traduttrice dal tedesco per le edizioni e/o. L’inchiesta di Claudio Gatti sul Sole 24 ore Domenica, pubblicata in contemporanea anche dal Frankfurter Allgemeine Zeitung, dal sito francese Mediapart e dal New York Review of Books, è stata duramente attaccata da lettori, scrittori e critici letterari, salvo qualche eccezione. Tuttavia, non è la prima sull’argomento. Pochi mesi fa La Lettura aveva dato ampio spazio al crivello di un viso concreto, in quel caso non legato a documenti finanziari e contratti immobiliari (il cosiddetto metodo investigativo follow the money, invece utilizzato da Gatti), bensì a paralleli letterari e autobiografici, a cura di Marco Santagata.

A seguito dell’inchiesta, però, si è aperto un dibattito sulla deontologia del giornalismo culturale: si tratta di un’esclusiva o di semplice gossip? È violata la privacy di Raja e Starnone? Perché non si rispetta la scelta dell’anonimato? A questo proposito è stato invocato il sempre più canicolare “tramonto della critica”: l’ecdotica e l’analisi del testo sono messe all’angolo dalla bramosia del pettegolezzo, dal rumor tacitiano che lede la reputazione e solletica il palato, a guisa di un intrigo da soap opera. È oggetto di biasimo, in particolare, un’asserzione dell’articolo di Gatti: quella in cui il giornalista, citando la sedicente autobiografia della Ferrante, obietta che l’autrice «abbia lanciato una sorta di guanto di sfida a critici e giornalisti». Il mezzogiorno di questo tramonto deriva piuttosto dal fatto che il testo letterario, nel tempo presente, sia in sé svilito: è la mezzanotte del romanzo, l’ora delle tenebre per una forma d’arte sempre più relegata al rango di “prodotto” confezionato a “tavolino” per “vendere”. Gli editori rubano il lavoro agli imballatori, eccetera. Ma questa è un’altra storia.

Michele Serra su Repubblica parla del «diritto all’assenza» di Elena Ferrante. Chiamerei in causa, piuttosto, il «diritto ad essere un nome», il cui effettivo impedimento appare più grande e pericoloso della latitanza esistenziale. Come afferma Mario Luzi in Viaggio terrestre e celeste di Simone Martini, il nome «vanisce/ nel celeste/ della sua distanza» e «s’interna nell’idea di sé, si brucia/ nella propria essenza». Il nome è «suprema purità», «beatitudo». Ingeborg Bachmann, in Letteratura come utopia, sostiene che «non esiste nulla di più misterioso dello splendore dei nomi e del nostro attaccamento a tali nomi, e nemmeno la non conoscenza delle opere che li illustrano impedisce a Lulu e a Ondina, a Emma Bovary e Anna Karenina, a Don Chisciotte, a Rastignac, a Enrico il Verde e a Hans Castorp di condurre un’esistenza trionfale».

Ebbene questa «esistenza trionfale» del nome e questa eventualità di «non conoscenza delle opere» si concludono per Elena Ferrante. Se il nome possiede una vita propria, allora gli è concesso un libero spazio d’immaginazione, che ora è violato, forse definitivamente perduto. In The Importance of Being Earnest, celebre e brillante commedia di Oscar Wilde, il protagonista Jack Worthing, che abita in campagna, finge di avere uno scapestrato fratello a Londra, Ernest, per poter condurre una vita di piaceri. Jack dichiara il suo amore alla giovane Gwendolen Fairfax, cugina dell’amico Algernon Moncrieff, cui si presenta con il nome di Ernest. Gwendolen ricambia il sentimento; è sua ferma intenzione, infatti, sposare soltanto un uomo che si chiami Ernest, poiché quel nome le «procura delle vibrazioni» e ha un suono che «scalda il cuore». Dal vincolo imposto nasce l’equivoco di Jack (e di Algernon), il quale non è veramente Ernest, né earnest, onesto. Wilde, giocando sull’espediente dell’assonanza, scoperchia lo zelo per l’apparenza e lo stile dell’alta società vittoriana.

Ebbene, quello di Elena Ferrante è sì un espediente per rimanere nell’ombra, con uno sguardo alle strategie di mercato; ma è anche un nome che «procura delle vibrazioni», forte della deliberata finalità di lasciar immaginare, di non mostrarsi interamente: l’essere un personaggio che crea personaggi e che esibisce una biografia da personaggio (vd. La frantumaglia). Francamente, se andassi a San Pietroburgo, sulla Prospettiva Nevskij, più che il Gogol’ storico, vorrei incontrare Piskarev e Pigorov, prima che le loro strade si dividano per sempre; così come se andassi a Mosca, sulla Tverskaja, saluterei frettolosamente Bulgakov e preferirei sbirciare l’esatto momento in cui il Maestro e Margherita si scambiano la prima occhiata. Ma, nella dimensione perfetta di questo sogno, nulla cambierebbe se, in loro vece, incontrassi soltanto, sospesa nell’aria come la bolla del ghiacciolo, la linea incerta dei nomi: essi recano ugualmente un’ipotesi di realtà nel sogno, forse più penetrante perché impalpabile, e dunque ubiqua. I nomi lasciano velato ciò che il nostro inconscio vuole resti velato, e sia completo appannaggio del puro fantasticare, in un’epoca nella quale tutto è scioccamente svestito.

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