Nicola Fano
Una città in totale abbandono. Da anni

Il caso La Comunità

L'amministrazione romana vuole sfrattare Giancarlo Sepe dal suo teatro storico. Una vicenda simbolica della totale assenza di progetto culturale di Roma. E non solo di Roma

La storia del Teatro La Comunità è esemplare. Di Roma e non solo. Vediamo: nel 1972, quando venne trasformata in sala teatrale, la “cantina” che ospita La Comunità era un magazzino in disuso; prima era stata una palestra di pugilato e poi un commissariato di polizia, infine un deposito della zecca dello Stato. Giancarlo Sepe, dopo averla tenuta in affitto per anni, finì per comprarla e con un intervento di restauro radicale (firmato dallo scenografo Uberto Bertacca) all’inizio degli anni Ottanta ne fece un teatro vero e proprio. Nero, elegante, confortevole, graticcia efficiente: un’aria da fabbrica di idee. Nel 2006, non essendo più in condizione di mantenere il suo gioiello, Sepe interpellò il Comune di Roma. In seguito a quel grido d’allarme (e di altri simili), l’allora assessore alla Cultura, Gianni Borgna decise l’acquisto di alcuni luoghi storici della produzione alternativa della città (compreso La Comunità) e dispose l’affidamento dello spazio di Trastevere, naturalmente, a Giancarlo Sepe. Ma prima che questa operazione potesse essere perfezionata, cambiò l’inquilino di Piazza Campitelli. I nuovi si dissero pronti a completare l’opera iniziata da Borgna ma di fatto le cose rimasero a metà strada. Sepe si offrì di pagare, unilateralmente, un canone di affitto, ma al Comune gli spiegarono che questo avrebbe creato ulteriore confusione.

Sennonché, neanche la Giunta Alemanno e la breve stagione della Giunta Marino sono riuscite a completare l’iter burocratico dell’affidamento, e quindi il Commissario Tronca, nel rispetto delle forme, invece di perfezionare l’operazione (culturale, prima che politica) continuamente rinviata, ha iniziato le pratiche di sfratto. In pratica, si voleva scacciare Giancarlo Sepe da se stesso, dalla sua storia, tagliando di un colpo un pezzo della memoria e dell’identità della città di Roma e non solo. Naturalmente, anche il tecnico Tronca capì che il problema andava sciolto altrimenti, ma non ebbe tempo – probabilmente – né la fantasia burocratica per risolvere quello che per dieci anni era rimasto un nodo insoluto. E ora, stante la perdurante precarietà dei nuovi inquilini del Campidoglio, la minaccia di sfratto della Comunità rischia di diventare una realtà.

Ebbene, è fin troppo facile dire che La Comunità è un pezzo della storia di questo Paese; che è l’ultima cantina teatrale rimasta in questa disgraziata città che da anni è diventata Roma; che toglierla a Giancarlo Sepe sarebbe semplicemente un’idiozia; che in qualunque altro paese civile un’amministrazione avrebbe curato quel bene come un gioiello invece di minacciarlo. Tutto questo è ovvio, banale. Ed è umiliante doverlo ripetere: come se l’arte e la cultura dovessero pietire un posto al sole invece di avere il rispetto e la riconoscenza che meritano da tutti. Il clima generale del Paese, dove ormai il disprezzo della politica (e non solo) per la cultura è dilagante, non aiuta. Anche se c’è da scommettere che alla fine una soluzione pratica, sia pur pasticciata si troverà, dal momento che nessuno (Sepe per primo) vuole approfittare di favoritismi, ma semplicemente poter continuare a fare il proprio “mestiere” di artista al servizio della città.

amleto-giancarlo-sepeMa il caso del Teatro La Comunità induce un’altra, ben più amara considerazione. La città di Roma, da molti anni, non ha più una politica culturale. Non ha più alcuna progettualità. Non parlo di utopie creative (quelle non vanno più di moda), ma neanche piccole idee. Chi la ha amministrata e la amministra (destra, sinistra, movimentisti) nella migliore delle ipotesi si è limitato a garantire una parte dell’indispensabile, nella consapevolezza che perdere qualche pezzo (parliamo di teatri? Ne sono stati chiusi a decine, nel silenzio più totale), in queste condizioni era inevitabile. La città di Roma da anni è allo sbando: non so se qualcuno ne abbia un’idea sociale e civile, ma di certo non ha una regìa culturale, non un’idea/base sia pure da contestare, magari da combattere. Niente, il vuoto. Gianni Borgna aveva un suo progetto: consolidare e stabilizzare le realtà germinate dalla stagione dell’effimero di Renato Nicolini e rimettere in movimento le periferie. Si poteva essere d’accordo o no, ma in entrambi i casi c’era qualcosa di cui discutere. Finita l’era Borgna (tredici anni!), nebbia totale. Più nessuno ha avuto una visione strategica, sia pure fugacemente: la città paga anche il fatto che sovente gli assessori alla cultura delle varie amministrazioni sono caduti in fretta, anche più in fretta dei loro sindaci. E così le emergenze si sono sommate alle emergenze, ogni volta diventando più drammatiche. E gli assessori al massimo hanno saputo tagliare e allargare le braccia. Al punto che oggi chi ha a cuore la cultura quasi vive con rassegnazione la situazione generale: molti non protestano neppure. Né – d’altra parte – chi ha in mano le redini dell’assessorato di piazza Campitelli (il titolare, i consulenti, i dirigenti) si sentono in dovere di prendersi la responsabilità se non di un progetto, nemmeno di semplici scelte di vita (o di sopravvivenza) delle istituzioni o delle varie realtà creative. Prendete i casi emblematici delle diverse emanazioni dell’Assessorato, dal Macro a Palazzo Venezia! Senza parlare della Quadriennale, del Palazzo delle Esposizioni: restano in piedi le grandi vetrine (Festa del cinema e il Roma Fiction Fest…) ma probabilmente solo perché sono passerelle consolidate di alcuni (vecchi) potentati cittadini. Il resto è abbandono più totale. Ecco in quale palude sta finendo anche La Comunità: non lo merita. E non lo meritiamo neanche i romani che amano l’arte o vivono di cultura.

P.S. Siccome bisogna fare da soli, La Comunità stasera riapre contro tutte le burocrazie. Con Amletò (nella foto sopra), un bello spettacolo: andatelo a vedere, sarà anche una buona occasione di solidarietà.

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