Visto all'Eliseo di Roma
Gli italiani di Mamet
Sergio Rubini aggiorna "Americani" di David Mamet dandogli una coloritura tutta italiana: anche da noi la crisi ha devastato i rapporti interpersonali come in America...
È un’umanità di individui alla deriva quella che ci propone David Mamet sin dall’inizio, dagli anni ’80, quando vinse un Pulitzer con “Glengarry Glen Ross”, che fu visto, nel suo iperrealismo, come un figlio di Tennessee Williams e Arthur Miller, mentre più lo si vede (e direi ascolta) più appare evidente che il suo lavorare sul confine di un assurdo esemplare abbia echi semmai di Beckett e soprattutto di Pinter.
Mamet è un virtuoso della scrittura teatrale, del dialogo puro, paragonato da sempre a una jam session jazz, nella nuova edizione di Americani con la regìa di Sergio Rubini in scena all’Eliseo di Roma, tradotto da Luca Barbareschi che ha antica consuetudine con questo autore: un autore che non presenta i personaggi a tutto tondo, non usa prologhi, ma subito entra direttamente nel vivo delle questioni facendo scaturire caratteri e situazioni appunto dalle parole, dal contrasto drammatico in un continuo crescendo di variazioni sul tema. Al principio bisogna quindi pazientare, arrivare ad essere coinvolti e scivolare nella calda e passionale tragedia umana della seconda parte, in cui la macchina implacabile del far denaro fa cadere i più deboli, stritola ogni briciolo di umanità, specie nei confronti di chi è più anziano e ormai regge meno la forza e la carica dei colleghi giovani e più spietati.
Ma la domanda di questo spettacolo è quanto somigliamo noi oggi a quell’America di Mamet, dopo che questa lunga e dura crisi ha portato anche qui a un sfruttamento puro delle persone, mettendole le une contro le altre in una lotta per la sopravvivenza, per un lavoro? Si direbbe molto, come ci fa capire l’allestimento di Sergio Rubini che gli dà sensibilità e il giusto ritmo, col titolo Americani, che era quello del film che ne fece James Foley del 1992 con un cast eccezionale (da Al Pacino a Jack Lemmon, da Alec Baldwin a Kevin Spacey). Ma qui, in questa versione ambientata in Italia negli stessi anni Ottanta, acquista una diversa valenza, come svelato da una delle prime battute: «Ma che siamo diventati americani!», alludendo all’implacabile modello agonistico del mondo degli affari d’oltreoceano.
Il testo di Mamet ci appare allora profetico nel suo ritrarre un’agenzia immobiliare in cui i venditori, la cui abilità è vendere fregature presentandole come occasioni d’oro d’investimento a poveri risparmiatori, devono riuscire a chiudere una certe serie di contratti per restare a galla, per avere contatti con clienti migliori, e non finire in coda sull’orlo del licenziamento, anche grazie a un gioco che si morde la coda e affida loro sempre più imprese di vendita miserabili e impossibili.
Qua, con un cast tutto di notevole livello, con dialoghi serrati e incalzanti, prima a due negli incontri ai tavolini di un bar in proscenio, poi nel surriscaldarsi dell’atmosfera nella sede dell’agenzia (le scene realistiche sono di Paolo Polli), il contrasto è tra il Daniele che vive delle finezze e debolezze umanissime dello stesso Rubini, che implora il più giovane direttore dell’agenzia, Tommaso (un Gianmarco Tognazzi essenziale e freddo nel suo cinismo senza cuore) che conosce da quando è arrivato, di aiutarlo a risalire la china in nome dei successi del suo passato, perché è nei guai e non sa come fare a andare avanti, e l’assatanato e aggressivo giovane venditore Riccardo (un agitato e carico Francesco Montanari) pronto a sfruttare tutto e tutti per riuscire a primeggiare e vincere la Mercedes in palio per il miglior agente. Con loro altri due venditori di poca fortuna che fantasticano e si lamentano, Roberto Ciufoli e Gianluca Gobbi, un pover’uomo raggirato da Riccardo che la moglie manda a annullare il contratto, cui dà la giusta fragilità e insicurezza Giuseppe Manfridi e un ispettore di polizia (Federico Perrotta).
Il dialogo-confronto tra la vittima Manfridi impacciato, avvilito e timoroso della forte concretezza della moglie, e l’agente di Montanari subdolo e aggressivo che cerca di raggirarlo ancora, di tergiversare e non farlo recedere prendendo tempo (la cosa è possibile solo entro tre giorni), sostenuto dal collega di Rubini, è un pezzo di grande bravura, non solo degli interpreti, ma dell’arte di Mamet che mescola con grande effetto cinismo e umanità, debolezze e arroganza, realismo del cliente e creatività dei truffatori.