Periscopio (globale)

Chi ha paura di Edward Albee?

Scomodo fino alla fine, Edward Albee ha diviso la critica anche dopo la morte, un mese fa. Eppure è stato il (geniale) gemello americano dell'assurdo arrabbiato alla maniera di Harold Pinter

La parabola umana e letteraria di Edward Albee è davvero curiosa e merita qualche riflessione. Morto il sedici settembre scorso a ottantotto anni, Albee, già vincitore di tre premi Pulitzer e di due Tony per il teatro, avrebbe dovuto essere unanimemente considerato una colonna del teatro statunitense, una specie di patriarca al quale tutto o quasi tutto è concesso. E invece le cose sono andate diversamente.

Autore di una trentina di opere teatrali, per la maggior parte originali – ma ha anche adattato per il teatro testi narrativi come Bartleby lo scrivano, Colazione da Tiffany, La ballata del caffè triste -, Albee non è mai stato trattato teneramente dalla critica, che gli ha anzi rimproverato nel migliore dei casi di avere ottime idee ma di non saperle sviluppare, ricorrendo spesso a degli espedienti o a dei colpi di scena piuttosto che all’approfondimento delle situazioni e dei personaggi. Perfino il suo lavoro teatrale più conosciuto, Chi ha paura di Virginia Woolf, del 1962, conobbe, soprattutto all’inizio, più un successo dovuto allo scandalo dei temi proposti, per l’epoca scabrosi, che quello più meditato e sereno che avrebbe dovuto arridergli in omaggio alle indubbie qualità artigianali di Albee, alla sua capacità di mescolare divertimento e serietà, se non addirittura una certa cupezza, e in generale all’innovazione del linguaggio drammatico, che certamente gli si deve, nella letteratura americana degli anni Sessanta. Dicevo “nel migliore dei casi” perché soprattutto negli anni Sessanta e Settanta Albee venne spesso attaccato, anche da critici illustri come Leslie Fiedler, solo perché scopertamente omosessuale e dunque, secondo i recensori, incapace a priori di mettere in scena le relazioni conflittuali fra un uomo e una donna, mentre altri si accanivano a cercare nei suoi testi presunti messaggi di glorificazione dell’omosessualità. Lui stesso diceva, senza scherzare troppo, di essere allo stesso tempo un autore sopravvalutato e sottovalutato, visto che alcune sue opere avevano ricevuto una messe esagerata di elogi e altre erano state stroncate senz’appello. Certo, col passare del tempo le 664 rappresentazioni a Broadway e soprattutto il film girato nel 1966 dall’esordiente Mike Nichols, con Richard Burton e Liz Taylor (nella foto sotto) nei panni della morbosa coppia di protagonisti, avrebbero permesso di circoscrivere e individuare meglio il messaggio che Albee avrebbe poi ripetuto in molte delle sue opere, ovvero l’intento demistificatorio nei confronti dello spavaldo ottimismo di un’America ridotta a rincorrere il proprio sogno, senza più alcun aggancio con la realtà.

chi-ha-paura-di-virginia-woolfNon era stato forse un caso che Albee avesse dovuto esordire nel 1958 con The Zoo Story – un breve lavoro teatrale che conteneva già in nuce parte dei temi dell’opera futura – non negli Stati Uniti, ma a Berlino. In seguito, altre due prime dell’autore ormai affermato, quelle di Marriage Play (1987) e di Three Tall Women (1991), si sarebbero svolte a Vienna, quasi a sottolineare quanto il suo rapporto con la critica e il mondo teatrale statunitense sia stato a tratti difficile.

Al teatro Albee era arrivato quasi per caso. Abbandonato dalla madre ancora in fasce, viene adottato da Reed Albee, proprietario di una serie di teatri di vaudeville, e dalla moglie Frances, detta anche Frankie, che molti anni dopo fungerà da modello per il personaggio principale di Three Tall Women. Erano una coppia di repubblicani accaniti: il padre, scrisse Albee, avrebbe votato anche per Attila re degli Unni se fosse stato il candidato repubblicano alla presidenza – il che oggi fa un po’ sorridere, perché Attila ci sembrerebbe tutto sommato un candidato accettabile, a confronto di quanto attualmente proposto. In ogni caso, e non solo per ragioni politiche, Albee non si sentirà mai a proprio agio con i genitori adottivi, tanto da dichiarare: «Ho saputo di essere stato adottato intorno ai cinque anni, e non è stata certo una sorpresa. Molti bambini crescendo sviluppano il timore di non essere figli dei loro genitori. Beh, io no. Al contrario, la mia paura era di essere magari proprio figlio loro!». Dopo essere stato espulso da varie scuole, fra cui l’accademia militare che “formò” anche J. D. Salinger, e dal college, non per incapacità ma per il testardo rifiuto di occuparsi di cose che riteneva noiose, appena possibile Albee scappò al Greenwich Village. Lì tirò avanti con lavori occasionali, fra i quali anche la consegna, per la Western Union, di certificati di morte (curiosità di cui resta un’eco nella sua opera più famosa), presentando nel frattempo a critici e scrittori le proprie poesie e finendo al contempo arruolato nel grande esercito dei bevitori e ubriaconi inveterati di New York. Pare sia stato un incontro con Thornton Wilder, al quale aveva voluto far leggere le sue poesie, a spingerlo verso la redazione di opere teatrali; fatto sta che nel 1958, seduto a una macchina da scrivere rubata, Albee immagina (e finisce due giorni prima del suo trentesimo compleanno) un atto unico in cui mette in scena l’incontro a Central Park di due sconosciuti, un tipico rappresentante del ceto medio e un barbone, facendone uno studio esemplare e crudele sulla solitudine umana, la disparità di classe e l’impossibilità di una vera comunicazione.

edward albeeNegli anni successivi Albee si specializza in commedie grottesche e amare che mettono in scena la vacuità delle relazioni umane e del sogno americano. Nel rifuggire ogni sentimentalismo, applica una sua personale lente d’ingrandimento al linguaggio che sente parlare intorno a sé, ne svela i meccanismi di ripetizione a volte surreale e di svuotamento dei significati. Parallelamente, sottolinea e mostra come il linguaggio sia un’arma efferata per attaccare e ridurre in brandelli l’involucro in cui ciascuno nasconde la propria personalità e le proprie debolezze. (E ci manca purtroppo lo spazio qui per un’analisi più approfondita della punteggiatura, di cui è uno specialista maniacale: punteggiatura che gli serve a creare non solo gli effetti delle battute, ma il ritmo stesso della recitazione, e su cui insiste soprattutto nelle sue numerose prove da regista teatrale.)

Quanto ad amarezza e crudeltà, Chi ha paura di Virginia Woolf è un testo paradigmatico; già il titolo fa il verso, con un pizzico d’intellettualismo giocoso che doveva forse servire a ingraziarsi qualche critico, a una canzoncina (Who’s Afraid of the Big Bad Wolf ovvero “chi ha paura del lupo cattivo”) che rimanda alla paura di vivere un’esistenza priva di delusioni. Tutta la commedia consiste infatti nel progressivo, esagerato ma al tempo stesso realistico disvelamento delle disillusioni di una coppia di mezz’età, che fra alcolismo, spietatezze verbali e sopraffazione fisica finisce per trovare una via d’uscita temporanea quanto instabile al jeu de massacre che ingaggia quotidianamente solo sacrificando sull’altare della comune depressione una coppia molto più giovane, ma già avviata verso il medesimo destino.

Molto vicino anche per poetica e mezzi espressivi al coetaneo Pinter, di cui era amico, Albee lascia un segno indubbio nell’opera non solo di autori statunitensi della generazione successiva, come Mamet o Shepard, ma anche di drammaturghi britannici di poco più giovani, quali Bennett e Ayckbourn, che da lui hanno mutuato, condendoli con un umorismo altrettanto spiazzante ma forse un po’ meno radicale, il senso dell’assurdo e lo stravolgimento delle convenzioni.

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