Al Chiostro del Bramante di Roma
Arte & Amore
Danilo Eccher ha riunito in una sola mostra tutte le iconografie dell'amore. Dalla Marilyn di Warhol alle zucche di Yayoi Kusama. Passando per pittura, scultura e, naturalmente, i selfie
L’amore come traguardo di un gioco interattivo di ruolo. E le opere d’arte come caselle di un tabellone che dettano il ritmo del percorso, le tappe in cui fermarsi. È la curiosa formula di Love, la mostra appena inaugurata al Chiostro del Bramante dove terrà cartellone fino al 19 febbraio. Un’antologia che chiama in scena sedici autori dell’ultimo mezzo secolo a declinare il leitmotiv del titolo, ma è a sua volta una sorta di capriccio d’autore perché il curatore Danilo Eccher, una carriera di critico incoronata dalla guida di vari musei d’arte contemporanea (a Bologna, Roma, dove per 5 anni ha diretto Il Macro, e Torino), ha assecondato il tono giocoso del copione, assumendosi il compito di chi tira i dadi, distribuisce le carte. E non esitando a barare per sottrarsi ai rischi della banalità. Come dichiara apertamente nella conferenza di presentazione e nel saggio in catalogo, ripercorrendo la storia dell’arte dalla preistoria a oggi come un compendio di dichiarazioni d’amore, perché «ogni capolavoro, ogni opera d’arte nasce e ci precipita nel vortice spaesante di una sfida d’amore, ne riverbera gli echi. E in questa chiave vanno dunque riletti e vissuti tutti gli oltre settanta lavori ospitati nelle splendide, piccole sale di questo chiostro rinascimentale». Inutile dunque storcere il naso se qualche associazione ci sembra forzata. Qualche inclusione o qualche dimenticanza appaiono opinabili, fuori fuoco. Non resta che giocare con le carte che sono in tavola. E lasciarci trascinare dal gioco, che comunque consente di mettere a fuoco vizi e virtù dell’arte di oggi.
L’inizio è folgorante. Si parte con l’arte pop, una svolta che ha segnato e ancora continua a dettare, nel bene e nel male, il destino del contemporaneo, gettando un ponte tra cultura alta e bassa, il sublime della creazione e la seduzione del consumo e della pubblicità. Creando insomma un alfabeto che ha fatto da specchio al mondo attorno a noi e si è sovrapposto al nostro linguaggio, a volte cosmesi, a volte malattia della pelle. Come le grandi lineari sculture di lettere componibili, stampatello e squillanti colori primari, esposte nel cortile con cui Robert Indiana (1928) ha riassemblato in equilibri instabili il logo della mostra e il cuore di molti nostri patemi: LOVE, AMORE. Come le sagome sensuali degli oggetti di desiderio dell’immaginario maschile che Tony Wesselann (1931-2004) ha preso in prestito ai manifesti pubblicitari e inciso su lastre ritagliate. Come il faccione da icona dell’eros con cui Andy Warhol (1928-1987) ha immortalato Marylin Monroe, e qui in questa mostra ,in una delle riproduzioni più cupe del ciclo, torna ad esibire il suo fascino, ma lo ammanta di colori scuri e tenebrosi.
L’amore e i suoi artifici raccontati da un’arte che ha in parte rinunciato alla sua aura. Non esita, ad esempio, a invadere il campo tradizionale della scultura, manipolando calchi di gesso e piegandoli ai propri messaggi. Come fa Marc Quinn (1964): il tenero abbraccio di una coppia nuda che sopravvive alle anomalie e ai guasti genetici dei corpi, lei con un braccio mutilato, lui con due moncherini da poliomielitico. A inseguire la creatività traslocando da un linguaggio a un altro. Ecco a documentare il poliedrico percorso dello stesso autore un grande tabellone pieno di scritte e foglietti, messaggi e dichiarazioni d’amore. Ecco due foto, formato gigante e colori virati, che inquadrano lo splendore e profetizzano l’inesorabile decadenza di un mazzo di orchidee.
Un viaggio attraverso le infinite peripezie e l’ambiguo vocabolario dell’amore, ma soprattutto attraverso il repertorio di tecniche ibridate che accompagnano il cammino dell’arte contemporanea, quello che Danilo Eccher ci propone. Ecco i fotomontaggi irridenti di spudorata e innocente sensibilità gay della coppia inglese Gilbert&George (1942). Ecco come Francesco Vezzoli (1971) si fa beffa di icone classiche e barocche che hanno infiammato cuori, fantasie e pettegolezzi, con coppie di foto affiancate: la Paolina del Canova e accanto la reinterpretazione di una modella, l’estasi berniniana di Santa Teresa nell’originale e in una posa d’attrice studiata per l’occasione. Ecco, per restare all’uso della fotografia, le gigantografie patinate come su un catalogo di alta moda con cui Vanessa Beecroft (1969,italiana trapiantata a Los Angeles) ci racconta in chiave glamour e antirazzista il mistero della maternità.
E poi ancora il cinema e la videoarte: l’islandese Ragnar Kjartansson (1976), l’austriaca Ursula Mayer, l’australiana Tracey Moffat. La pittura: poco e mal rappresentata dai disegni acquarellati e da un quadro di un ex profeta della Transavanguardia, Francesco Clemente. La consacrazione della parola poetica attraverso la fosforescenza del neon, documentata dalle frasi di devozione e disperazione di Tracey Ermin illuminate di vari colori. Il teatrino di marionette e fiori di cartapesta con cui un duo svedese Djurberg § Berg ci ripropone gli incanti e i terrori del mondo infantile. L’istallazione, che chiama in scena la portoghese Joana Vasconcelos (1971) con una suggestiva sintesi visionaria di arte povera ed effetti teatrali in bilico sul precipizio del kitsch : un gigantesco cuore costruito con forchette di plastiche che oscilla , rubando ad un riflettore l’ombra di una danzatrice che avanza sul ritmo straziante e strascicato di un fado.
Proprio a fine percorso arriva lo spettacolo a nostro avviso più emozionante. Firmato dalla giapponese Yayoi Kusama, una prestigiosa carriera di scultrice, pittrice e scrittrice che parte dall’inizio degli anni ’60. Si varca uno alla volta una porticina incassata in un cubo di legno. E ti si spalanca di colpo (nella foto) un universo vertiginoso, popolato di grandi zucche zebrate che si riflettono insieme alla tua immagine in un labirinto di specchi che sembra dilatare all’infinito in un delirio di echi vivi lo spazio angusto della stanza. Un vortice che sembra cogliere più di ogni altra opera la poesia ambigua e tumultuosa dell’amore, il senso di potere e di perdita che ci scatena dentro. Ma l’autrice ci invita anche a riderci su alla maniera zen: a precipitare lei nell’abisso di questa creazione – ci spiega e confessa il titolo – è stata un irresistibile passione per le zucche.
A chi non basta questa scorpacciata d’arte, resta il copione del gioco suggerito dagli allestitori. L’autorizzazione di scattare foto e selfie senza limitazioni. I graffiti che prolungano con aggiunte scherzose il ritornello dei Beatles «All you need is love», le matite a disposizione per tracciare sui muri altre chiose, altri pensieri d’amore, lo stuolo di amorini e cupidi disegnati lungo il percorso. Una scenografia scanzonata che magari toglie inibizioni ma ci prende tutti per scemi. Come la trovata che è richiamo inedito di questa mostra: imporre ai visitatori l’uso di cuffiette a pilotare in audioguida tutto il percorso, lasciandoli però liberi di scegliere tra cinque diversi ciceroni. Dall’intellettuale sofisticato e trasgressivo ad una cagnetta di Walt Disney. Come se non bastasse il frastuono, il carico di rumore eccessivo che la comunicazione dell’arte di oggi con i suoi statuti meticci, il suo muoversi in superficie si trascina già appresso.