Al Festival di Mantova
Semplicemente Baricco
Lezione spettacolo a due facce per Baricco sul valore della "semplificazione" della vita: grande attore quando racconta Londra del 1930, noioso quando fa il filologo
L’avvio è folgorante. Un’idea e un incipit da maestro della scrittura. Alessandro Baricco inizia la prima delle sue tre apparizioni teatrali al festival della letteratura di Mantova, prendendo posto dietro una cattedra al centro del palco del Teatro Sociale, alle spalle la gigantografia di una mappa della metropolitana di Londra. E ripercorrendone la storia. 1930. Harry Beck, un ingegnere che collabora da esterno con l’azienda e aspira da tempo ad un’assunzione presenta alla direzione una nuova cartina con i percorsi dei treni da distribuire ai viaggiatori. Una proposta rivoluzionaria di sorprendente chiarezza, rispetto alle mappe precedenti; che Baricco riproietta a confronto sullo schermo luminoso. Colori base per rappresentare le varie linee che s’intrecciano, caratteri tipografici di facile lettura. Ma soprattutto tre innovazioni. Via ogni riferimento alla topografia della città: parchi, monumenti, palazzi storici che appesantivano e confondevano la vista. Resta solo, difesa a spada tratta come una bandiera identitaria dal pubblico londinese, la sagoma stilizzata in un serpentone geometrico del Tamigi. Rinuncia ad ogni tentativo di marcare la distanza delle stazioni, che Beck intervalla in modo uniforme. E riduzione delle curvature e delle anse delle varie linee ferrate a pieghe di percorso che non superano i 45 gradi d’inclinazione.
Due anni di trafila per rimuovere dubbi e incertezze dei vertici. Poi la cartina viene adottata e nel 1932 entra in distribuzione. Accolta da un successo straordinario. Dagli utenti, conquistati dalla nitidezza delle informazioni. E dagli addetti ai lavori, che la considerano un capolavoro grafico. Un prototipo rimasto fino a oggi invariato e che tutte le altre metropolitane finiranno per imitare. Harry Beck viene assunto: finalmente uno stipendio sicuro, anche se piuttosto modesto. E incoronato come un genio rifondatore. Eppure – ci ammonisce Baricco – è a suo modo un falsario: per rendere comprensibile e digeribile quel labirinto sotterraneo che è la linfa segreta della metropoli, non esita ad allontanarsi dalla realtà, ammorbidirla.
Perché il caos del mondo esterno può essere trasformato in una realtà vivibile, a misura d’uomo, solo dell’artificio dell’ordine, della semplificazione. Sarebbe questa secondo Baricco la ricetta della verità, come lui stesso ha voluto battezzare questa prima delle sue tre letture mantovane. Ma, a questo punto lo spettacolo di impantana, abbandonando la pista ammiccante e coinvolgente dell’affabulazione. Da narratore, l’interprete si improvvisa filologo e cerca di misurarsi con altre mappe, altre invenzioni. Dalla storia di Harry Back ad un sonetto di rime amorose di Dante. Gli accenti che scandiscono i versi come le rette che raddrizzano il tragitto del metro: ecco la straordinaria svolta impressa dall’avvento dello Stil Novo. E di qui, senza più in filo di racconto, si passa a Kant, si arriva persino a Beethoven, e si finisce a Leopardi e ai versi dell’Infinito con cui si conclude in inarrestabile calando l’esibizione, con forzature sempre più spicce e superficiali.
Come quella, scandita da giochetti grafici riproiettati sullo schermo come schizzi di un ascoltatore bambino in estasi, che prendendo a modello il liet motiv della Quinta Sinfonia piega la rilettura di questa celebre partitura di Beethoven, per obbligarlo a calzare i panni del costruttore ortodosso della grande musica romantica, lui che ha scardinato tutte le certezze della musica del suo tempo. Troppo innamorato di se stesso, Baricco, per accorgersi che non ha la stoffa di un vero attore, la dizione, le pause, la capacità di parlare col corpo per reggere e trascinare oltre le secche un monologo così rarefatto e chimerico. Per non capire che sta tradendo l’attenzione e le attese di una platea richiamata dalla sua fama di affabulatore confidenziale e smagato, che sciama fuori del teatro fra mormorii di delusione e sbadigli.
E a modo suo rinnegando lo stesso copione, che ha fatto la fortuna di questo festival di Mantova giunto ormai alle ventesima edizione. Una sorta di immersione totale nei flussi infiniti di suggestioni della parola scritta che ha rinunciato in partenza a mettere ordine nel caos ma cerca piuttosto di rivendicare la creatività, la vitalità, la lotta per sopravvivere del libro, mescolando letteratura alta e bassa, sperimentazione ed evasione, saggistica filosofica e moda, politica e intrattenimento, moltiplicando a dismisura le offerte in simultanea, quest’anno quasi trecento appuntamenti mordi e fuggi condensati nell’arco di appena cinque giorni.
E poi un pubblico che è libero di costruire a piacimento un proprio filo d’Arianna: il grosso degli incontri è a pagamento e devi sceglierli con molto anticipo altrimenti non trovi posto. E devi sopportare lunghissime code all’ingresso. Ma il pubblico poi sembra trovar appagamento non tanto dalle occasioni di conoscenza e contatti ravvicinati con gli autori, spesso raggelati dall’obbligo di tradurre gli interventi dei tanti ospiti stranieri, dai tempi troppo stretti, ma dal riconoscersi in una sorta di comunità speciale a rischio di estinzione che aldilà delle differenze di età, gusti, preparazione, si sente affratellata dall’essere lì in tanti, dal partecipare a un rito controcorrente, dal piacere delle parole, anche quelle, soprattutto quelle che a volte fai fatica a capire. Dalle domande prima impensabili che ti affiorano dentro e valgono molto di più di tante risposte scontate a cui comunque il festival offre ribalta con l’immancabile parata di divi da piccolo schermo.