Alberto Fraccacreta
L'artista oggi sarà premiato all'Ateneo

Metafisica di Urbino

«Dico sempre che se un quadro dà qualcosa, è perché ci somiglia. Non bisogna mai fermarsi all’apparenza; è necessario, invece, un colloquio con l’opera d’arte»: incontro con Mario Logli

Mario Logli riceve oggi dal Rettore Vilberto Stocchi il Sigillo d’Ateneo dell’Università degli Studi di Urbino “Carlo Bo”. Classe ’33, ha frequentato l’Istituto di Belle Arti nella città montefeltresca, apprendendo le tecniche grafiche e di incisione, e specializzandosi in litografia sotto la guida di Carlo Ceci. Dopo il diploma, ha insegnato disegno ornamentale nella medesima scuola. Nel 1955 l’editore Garzanti gli affida le illustrazioni di una collana di testi classici. Si stabilisce dunque a Milano, dove lavora come illustratore editoriale e come collaboratore di Ezio Frigerio per il Piccolo Teatro, guidato da Strehler, con bozzetti di costumi ed elaborazioni di scenografie. Dal 1964 al 2002 è responsabile del settore illustrativo dell’Istituto Geografico De Agostini. Negli anni Settanta è selezionato da una giuria europea tra i cinque migliori artisti italiani del momento. Ha vinto il Premio Lombardia e il premio Arte Fantastica di Stoccarda; ha partecipato al Festival dei Due Mondi di Spoleto. Suoi quadri sono stati esposti nelle maggiori capitali europee, in America e in Giappone. La pittura logliana anela al tempo dell’attesa, alla congiunzione di immagine e alterità, approdo finale di una regione non delimitata della memoria. La parusia – il ritorno della presenza – è evento concreto e visibile, che restituisce il dato metafisico al piano veritativo di realtà. Così la “ragione del cuore” perora la causa di uno scenario meno asettico e umbratile, entro la cui perfezione è possibile scorgere la stagione di pienezza contro la disumanizzazione della téchne. Molte opere – come Portami via, Alla luce lu­na­re e Il grande cielo – vivono di questa equilibrata dialettica tra emozione e algebra, estasi e ironia, Stimmung e analisi. Paolo Volponi scrisse di Logli: «Ossessivamente urbinate è il suo gruppo di opere, e non solo e nemmeno tanto per i soggetti (figure e paesaggi precisi di quell’ambiente e di quella storia) ma proprio per l’essenza, per l’intera qualità che si riconosce in ogni singolo dipinto come opera d’arte del clima versato e irresistibile di Urbino: dimensione, flusso, quieta catastrofe».

Che legame c’è tra la sua pittura e Urbino?

«L’aspetto fondamentale della città è la sua conformazione a misura d’uomo. Ho vissuto Urbino in diverse dimensioni: le piazze, i sentieri e i vicoli per giocare, il Palazzo ducale come scuola e come casa. Le aule, le stanze, gli scuri, le rampe, i quadri di Piero della Francesca, di Raffaello, del Laurana: tutto era un selciato di incanto. Guardavo fuori dai finestroni e sognavo di valicare il paesaggio “che da tanta parte dell’ultimo orizzonte il guardo esclude”. E la curiosità di vedere oltre era più forte del restare».

mario-logli3Urbino è per lei un luogo “dechirichiano”. Ma è vero che all’aspetto geometrico della città ideale aggiunge un sentimento lirico, per dirla con Pascal, un esprit de finesse?

«Urbino, nella sua struttura interna, è già un luogo metafisico. Immagino di salire dalla piazza verso il duomo e di fermarmi qualche istante a contemplare la fiancata del Palazzo ducale: in primo piano, l’obelisco riflette in diagonale la sua ombra e la parete ambrata, in una tiepida giornata di sole, proietta e fissa un’altra parete sui ciottoli di piazza Rinascimento. I palazzi universitari fanno da punto di fuga dell’intera prospettiva. È un quadro fatto, che reca in sé tutta la metafisica e la poesia che si possono immaginare, perché il metafisico è magia delle ore, ipotesi del minuto, richiamo dell’attimo, anche in de Chirico…».

Perché ricorre spesso nei suoi quadri Urbino sospesa e peregrina come Atlantide? Perché questo “sradicamento ontologico” dal suo stesso paesaggio?

«È come se la città avesse paura di rimanere ancorata in questa terra sempre più irriconoscente verso la bellezza e l’arte, per cui la fuga, la ricerca ossessiva di un luogo – ma non so quale – è la speranza ultima per poter sopravvivere».

La sua opera affronta anche l’alienazione e la reificazione dell’uomo e le inattuabili proposte di restaurazione della natura.

«È stata una parentesi importante della mia pittura. Sono Gli Invasori, che avevano i nomi di anticrittogamici, antiparassitari e che iniettati nella terra facevano nascere il “mostro”, una figura assemblata con i detriti e i rifiuti della nuova società. Questi quadri, composti tra il ’72 e il ’75, hanno anticipato lo stato odierno dei rifiuti, ma soprattutto, più a breve termine, i terribili effetti della diossina. A seguito di una mostra al Castello Sforzesco di Milano, fui intervistato dal Tg1, da Panorama, dalla Domenica del Corriere, perché volevano sapere come avevo fatto a intuire quello che si è poi verificato di lì a qualche anno: il disastro di Seveso».

mario-logli2È un’eresia dire che alcune successioni cromatiche dei suoi quadri – mi riferisco, ad esempio, a Controluce, Viaggio di ritorno, La piazza – possono avere un parallelo nelle Storie di Maria giottesche?

«È senz’altro possibile che abbia incamerato quel senso di armonia e di lucentezza nel cromatismo di Giotto. Quando si dipinge, non è facile cancellare dalla mente le figurazioni e le forme che hanno nutrito l’immaginario artistico. Inconsciamente, ma fatalmente germogliano nel tessuto mentale e prendono parte alla composizione. Dico sempre che se un quadro dà qualcosa, è perché ci somiglia. Non bisogna mai fermarsi all’apparenza; è necessario, invece, un colloquio con l’opera d’arte. Solo così si entra in una dimensione relazionale, perché, a nostra volta, diamo qualcosa al quadro: l’impulso nelle viscere che abbiamo provato, l’esperienza o forse la minaccia dello splendore».

A proposito di Maria, lei ha dipinto due bellissimi quadri raffiguranti la Theotókos.

«Sì, una Madonna delle rose e una Madonna di Urbino. Entrambe hanno la città ducale sullo sfondo, che sia un auspicio di tutela e benevolenza. Della prima l’arcivescovo di Pesaro ne ha voluto una riproduzione per sua madre. Il senso di maternità globale della Vergine è uno dei temi più cari alla pittura e all’uomo».

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