Un racconto inedito
L’ultima notte di Ahmed
«Il compito di Ahmed era il più faticoso e il più elementare: raccogliere e portar via dentro una carriola tutti i detriti di roccia sparsi lungo il tratto di nastro che correva all’interno del corpo della macchina»
La notte prima, Ahmed la passò in un noto karaoke di Tanah Ratah, Cameron Highlands, Malaysia peninsulare.
Le ragazze erano scadenti. Indonesiane, filippine, vietnamite, qualche indiana e molte cinesi; nessuna malese, quel mestiere non faceva per loro. Il karaoke si chiamava ‘Huik-ho’ e lo teneva un vecchio cinese di Brinchan, trenta chilometri a nord-est di Tanah Ratah. L’aveva aperto due anni prima, subito dopo l’inizio dei lavori. Diversi, a Brinchan, tra i cinesi arricchitisi con le serre di ortaggi e le piantagioni di tè, avevano investito il loro gruzzolo in luoghi di divertimento disseminati nei dintorni del cantiere.
La filippina che prese il microfono era larga di fianchi e aveva le caviglie grosse. Portava un gonnellino minuscolo e scarpe con tacchi altissimi. Salì in piedi sul basso tavolino tra i divani e cominciò a cantare. La voce era rauca, ma intonata. Il suo inglese cantilenante seguiva incespicando le strofe che scorrevano sullo schermo. Nel video, una ragazza dall’aria sconsolata vagava per le vie notturne di una grande città orientale, un’accozzaglia di grattacieli illuminati sovrastanti un intrico di viuzze affollate e sudicie.
Huik-ho non era un posto da operai. Era un karaoke di livello intermedio – né di lusso, né un lupanare d’infimo rango – frequentato da quegli stranieri di livello intermedio che nella Compagnia erano chiamati TCN. Acronimo per Third Country Nation. Né europei né locali. Egiziani, pakistani, indiani, malgasci, rhodesiani, turchi, marocchini, uruguayi, colombiani. Espatriati di seconda scelta, provenienti da nazioni dove, in passato, la Compagnia aveva costruito qualche diga. Appartenevano a quella comunità multietnica e nomade che seguiva il carrozzone dei cantieri, nei suoi traslochi in giro per il mondo.
I TCN erano più ricchi dei locali, avevano stipendi più elevati, ma non alti quanto gli europei. Huik-ho era un karaoke adatto al loro livello di spesa. Modico, per un europeo. Ma caro, decisamente troppo caro per Ahmed, che era un manovale neoassunto, il gradino più basso nella gerarchia del cantiere.
Un bullo, quindi. Un giovinastro che al suo primo giorno di paga aveva deciso di darsi delle arie, affittando una saletta privata e una dozzina di ragazze superiori ai suoi mezzi in un karaoke che non avrebbe potuto permettersi.
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Oltre a violare la gerarchia del cantiere, questo contravveniva al patto stipulato con sua madre. Masytah era una donna di poco meno di cinquant’anni, assai mal portati: di statura minuscola, precocemente invecchiata, capelli grigi nascosti dal velo malese che incorniciava un ovale intarsiato di rughe.
Tuttavia, malgrado l’aspetto, Masytah era ancora energica, come madre e come moglie. Era una donna di modi bruschi e di poche parole, risoluta nel condurre l’economia familiare. Coprì Ahmed di lodi, il giorno in cui seppe dell’assunzione. Questo voleva dire un terzo stipendio che entrava in casa, dopo quello di suo marito, Swaimi, che lavorava nelle serre ortofrutticole a sud di Ringlet; e quello di Khaled, il primogenito, che faceva il cameriere alla Smoke House.
Masytah aveva promesso ad Ahmed una cerimonia in suo onore, per quel successo. Ma al tempo stesso l’aveva messo in guardia. Anche lui, come Khaled, avrebbe dovuto versarle ogni mese metà della paga. Masytah sorvegliava strettamente le tasche dei suoi uomini. Sapeva che, a lasciar loro in mano i quattrini, li avrebbero scialacquati in poche ore.
Obbedire a quella semplice regola di mezzadria domestica, pietra angolare dell’economia familiare: di tutti i soldi che entrano, metà va a Masytah, per la casa; l’altra metà resta agli uomini per i loro trastulli. Con suo marito prima e con Khaled poi, Masytah aveva saputo imporsi. E l’avrebbe fatto anche con Ahmed, non fosse stato per quel che accadde quella notte. Non c’erano cose che Masytah non avrebbe saputo ottenere dai suoi uomini, con la pazienza, l’astuzia e la crudeltà di cui le donne orientali sono capaci.
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La Smoke House, dove lavorava il fratello maggiore di Ahmed, era l’albergo più chic di Tanah Ratah. Un piccolo resort d’epoca coloniale, residuo dei tempi in cui William Cameron, topografo della Royal Geographical Society, aveva esplorato quelle alture. Corridoi, sale, stanze, traboccavano di cimeli d’epoca. Foto di Cameron tra gli indigeni, primo bianco in quel tratto di jungla, campeggiavano sul grande camino della hall.
Il nucleo originale – un rustico cottage in pietra, con le intelaiature in legno scuro, a vista, e il tetto dagli spioventi molto inclinati, che avrebbe potuto stare benissimo in un villaggio delle Midlands inglesi – s’era esteso nel tempo in altre costruzioni, articolate e raccolte attorno a un cortile centrale. Lo occupava un giardino lussureggiante di vegetazione tropicale, delimitato da aiuole traboccanti di fiori, tra le quali erano sparsi bassi tavolini di bamboo. Sul cortile affacciavano le stanze, dotate di ampie vetrate a riquadri bianchi e di tutti i comfort di un albergo moderno. Un’accogliente sala-bar, al pianterreno, col camino e il pianoforte, era cinta di una corona di salette più piccole, appartate, disseminate di divani in cuoio, tappeti, scomodi pouff e tendami orientali.
Le sale comuni e le stanze erano state restaurate. I numerosi pezzi autentici di mobilio d’epoca erano stati conservati e valorizzati, sapientemente disposti sulle tappezzerie scure di recente rinnovate. In un’ala laterale era stata ricavata un’attrezzata spa con sale da massaggi.
L’albergo era frequentato da escursionisti europei e, di recente, anche cinesi. Turisti facoltosi che si concedevano qualche giorno di relax e trekking nella jungla d’altura e lunghe passeggiate tra le piantagioni di tè. Ma, dopo aver esplorato il territorio durante il giorno, la sera avevano bisogno di altri svaghi. Era a quel punto che entravano in scena inservienti fidati come Khaled, che sapevano dove andare a trovare ciò di cui quei turisti – uomini soli o a gruppi – avevano bisogno.
Khaled aveva imparato un mucchio di trucchi alla Smoke House. Era entrato in confidenza con le ragazze che frequentavano il resort, e vedeva tutte le sere come i ricchi europei e cinesi si divertivano con loro, nelle sale da massaggio, nelle Jacuzzi della spa, nei salottini in cuoio martellato che circondavano il grande camino. Gente che s’attardava in prolungati preliminari, preferendoli al momento di salire in camera; più o meno come trovava più attraenti i sofisticati aperitivi dell’albergo rispetto alla sua più ordinaria cena.
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Ahmed aveva solo diciassette anni e chi in cantiere l’aveva giudicato un bullo perché alla sua prima paga aveva preso in affitto una saletta privata nel karaoke di Huik-ho e più ragazze di quante lui e i suoi amici avrebbero potuto consumare, non aveva capito proprio niente. Ahmed non era un bullo. Era un ragazzo timido, che non sarebbe mai riuscito mettere in piedi una simile orgetta, non fosse stato il fratello a trascinarlo.
Khaled, di un anno più grande, era sempre stato il più intraprendente e il più svelto. Già a quindici anni aveva cominciato a guadagnare denaro, con certi traffici di cui era diventato esperto, e s’era conquistato col denaro la sua indipendenza. Da quando, poi, frequentava la Smoke House, ed era entrato in contatto col mondo dei ricchi, s’era molto smaliziato.
Ahmed era in debito con lui. Le leggi sul lavoro malesi consentivano ai minorenni di lavorare nei cantieri, pur imponendo che venissero assegnati a mansioni non pericolose; la Compagnia però – per non esporre a rischi tanto i ragazzi quanto se stessa – aveva deciso di non assumerne. Così, per ottenere il posto in diga, Ahmed aveva dovuto far ricorso a un trucco. Aveva esibito all’impiegato addetto alle assunzioni la carta d’identità del fratello, che diciotto anni li aveva appena compiuti. Ahmed e Khaled si somigliavano, un europeo non sarebbe mai stato in grado di distinguerli da una foto. Due veri bumiputra (figli del territorio): bassi di statura, corporatura robusta e un po’ tarchiata, carnagione olivastra, folti capelli neri, zigomi piatti e larghi, occhi di taglio vagamente orientale, ma meno a mandorla dei cinesi.
Presa in prestito l’identità di Khaled, Ahmed aveva avuto il posto. Sulla busta paga che aveva appena ritirato, la sua prima, c’era stampato il nome del fratello. Ed era con quei soldi, e a pagamento di quel debito, che era stato organizzato il festino da Huik-ho.
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S’erano ritrovati in quattro, Khaled, Ahmed e due amici intimi, coetanei dello stesso villaggio, dinanzi al portone di un edificio anonimo di costruzione recente, in una viuzza secondaria nel centro di Tanah Ratah.
Le ragazze non erano belle come quelle che frequentavano la Smoke House. Ma Khaled e i suoi amici ebbero comunque diritto a prenderne tre a testa, e una saletta interamente riservata, e liquori e altre bevande e narghilé. Tutto per un forfait, per l’intera notte.
Come fosse possibile, con la misera busta di un manovale, permettersi tutto questo, fu chiarito poi nel corso delle indagini. Il padrone di Huik-ho era anche fornitore di ragazze di classe per i lussuosi resort dei dintorni; gli costò poco fare uno sconto a Khaled, cedendogli una serata a tariffe stracciate da Huik-ho, in cambio di un occhio di riguardo sulle prossime forniture alla Smoke House. Khaled e i suoi amici spuntarono un buon prezzo.
Vennero fatti accomodare in una saletta al primo piano, vividamente illuminata, tappezzata di stoffe e cuscini. Dal soffitto pendevano lampade colorate di carta di riso, il pavimento era rivestito di tappeti e una parete era interamente occupata dal grande schermo del karaoke. Da una porticina laterale, furono fatte entrare le ragazze, a mandate successive. La cerimonia della cernita fu interessante. Sfilarono distinte per gruppi etnici: prima le cinesi, le più numerose, poi le vietnamite, le indonesiane, le filippine. Erano vestite pressoché tutte allo stesso modo: abiti succinti, tacchi alti, dosi abbondanti di trucco a buon mercato. Tutte molto giovani, difficile trovarne una vicina alla trentina.
Quand’ebbero scelto tre ragazze a testa, le luci si abbassarono, lo schermo del karaoke s’accese, la musica salì di volume, delle inservienti entrarono con vassoi e bevande e le ragazze s’alternarono al microfono.
Ahmed prese due indonesiane e una ragazza del bangladesh, musulmane come lui. Ma nella prima mandata notò una cinese grande, una del nord, di ceppo mongolo, più alta delle altre di tutta la testa, con lo sguardo tagliente e il portamento fiero, che non ebbe il coraggio di scegliere e che toccò al fratello.
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Ahmed era intimidito. Si sentiva a disagio, e in colpa verso sua madre per la promessa mancata. A ondate inopportune, immagini di un diverso festino si sovrapponevano a quelle del karaoke, una sfilata molto differente tenutasi appena una settimana prima, al villaggio…
La cerimonia s’era svolta secondo gli schemi tradizionali della piccola comunità bumiputra che fino a poco tempo prima viveva in nuclei di palafitte disseminati lungo il corso del Bertam. Una cinquantina di famiglie fittamente intrecciate tra loro, volti ben noti fin dall’infanzia, di donne, di vecchi, di ragazzi come lui. Gli anziani del villaggio erano venuti in processione a felicitarsi, nella casa predisposta ad accoglierli, a congratulare Ahmed per il posto ottenuto e a subissarlo di raccomandazioni e consigli. Ogni famiglia aveva mandato i suoi rappresentanti. E prima sfilarono i vecchi, uomini e donne, e poi anche i suoi coetanei. L’intera comunità gli si stringeva intorno. Un giorno importante, in cui sua madre aveva deciso di onorarlo.
Tutto organizzato da Masytah, che accoglieva gli ospiti, scambiava con loro i saluti di rito, li invitava a sedersi, a mangiare, sorvegliava che tutto si svolgesse secondo le regole. La casa era stata predisposta per l’occasione, c’erano cibo, bevande, vasetti d’olio profumato, candele accese, aromi che bruciavano in vaschette di fiori. E panche allineate lungo le pareti, per far sedere tanta gente.
Non erano frequenti le occasioni di festa, nella vita di Masytah. Ma il suo ragazzo aveva ottenuto un lavoro, la cosa più seria nella vita di un uomo, e lei aveva messo ogni cura nel celebrare il suo passaggio alla virilità.
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Solo che i preparativi della cerimonia, che di solito affrontava con gioia, stavolta c’era come un’ombra ad offuscarli. Ciò non dipendeva dal presentimento che Ahmed non avrebbe mantenuto la sua promessa.
No, il malessere di Masytah aveva un’altra origine. Tutti gli impegni tradizionali e domestici s’erano fatti un po’ confusi, ultimamente, da quando il villaggio aveva traslocato. Masytah talvolta doveva interrompere il lavoro, colta da improvvisi attacchi di pianto. Ricacciava le lacrime in gola e si concentrava su quel che doveva fare.
Aveva acquistato due casse di duriam, i frutti selvatici di Cameron Highlands, e il loro forte odore invadeva tutta la casa. Lo si respirava a vampate, che s’accendevano qua e là negli angoli, come fuohi improvvisi. Un odore penetrante, che la stordiva e le faceva bene. Inselvatichiva un po’ quella casa troppo ordinata, troppo comoda. Sulla stufa – una stufa a gas, Masystah non aveva mai avuto niente del genere – bolliva una salsa dolciastra di arachidi non tostate e sul basso tavolo da cucina erano allineate le stecche di legno del satay.
Troppo vecchia, Masytah, per abituarsi a tante novità. Le nuove case che il governo aveva fatto costruire erano più ampie e molto più salubri delle vecchie. Solida muratura anziché precario bamboo. Ed erano vicine le une alle altre, allineate lungo le vie ben disegnate di un villaggio moderno, non disseminate a caso nella macchia, là dove la jungla diradava lasciando agli uomini un po’ di spazio.
Soprattutto, non erano collocate così vicine al fiume, perché nelle nuove abitazioni l’acqua arrivava direttamente in casa con delle tubature, non era necessario andarla ad attingere sul greto. E c’erano, oltre all’acqua corrente, la luce e l’energia elettrica, e persino i condizionatori. Ineccepibili migliorie. Sui tetti in lamiera cominciavano a comparire le prime parabole della tivù.
E non erano neanche troppo distanti dal villaggio vecchio. Il governo era stato pieno di attenzioni, nei loro riguardi, li aveva allontanati il meno possibile dal territorio nativo, dai luoghi dei loro cimiteri. Qualche chilometro appena, quanto bastava a portarli al di sopra del livello d’invaso.
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Al nuovo villaggio era stato dato un nome, che Masytah faticava a imparare. Aveva a che fare con la famiglia reale di Pahang. A inaugurare il villaggio era sceso dal cielo il sultano in persona. Il suo elicottero (tra le varie cariche onorifiche che spettavano al sultano, c’era quella di capo supremo dell’aviazione malese, onore che gli consentiva di disporre a suo piacimento di alcuni velivoli militari) aveva sorvolato le alture di Cameron Highlands proveniente da Kuantan ed era atterrato proprio al centro del villaggio nuovo, nello spiazzo asfaltato predisposto ad accoglierlo.
L’H gialla dell’eliparco aveva il colore appropriato. Negli addobbi della cerimonia, tutto ciò che era dedicato al sultano doveva essere giallo: gialle le decorazioni del palco da cui avrebbe parlato, gialli i tendami sotto i quali avrebbe sostato, le tovaglie della sua tavola, le insegne e gli stendardi in suo onore; e nessun altro, in quell’occasione, avrebbe dovuto indossare niente di giallo, questo aveva spiegato alle donne il capo del cerimoniale: il giallo era, in esclusiva, il colore del re.
L’H dell’eliparco sarebbe diventata la piazza centrale. Là dove lui, scendendo dal velivolo, aveva posto il piede. Vi sarebbe stata collocata la stele che portava incisa l’interminabile litania onomastica che declamava tutti i nomi del re – una trentina almeno – tra i quali fu scelto quello che d’ora innanzi avrebbe portato il villaggio.
Masytah s’affaccendava a preparare il riso fritto, i noodles e le polpette di pesce condite con salsa sambal. L’assunzione di Ahmed in diga, il suo primo lavoro, sarebbero stati festeggiati a dovere. Se di quando in quando lacrime sgorgavano dai suoi occhi, velandole la vista, e le rigavano il viso perdendosi nel groviglio di rughe, lei non ci faceva caso.
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La strada che da Tanah Rata scende fino alla diga è ampia e panoramica. Morbide curve che nella zona più elevata s’affacciano su un tratto in lieve pendio dell’altopiano. I bassi cespugli delle piantagioni di tè disegnano complicati arabeschi sui fianchi delle colline. Più a valle, scendendo sotto i mille metri d’altitudine, le piantagioni non sopravvivono al calore e all’umidità, e la jungla prende nuovamente il sopravvento. Ma non è la jungla dominante e aggressiva dei territori più a settentrione, nel distretto di Teregganu.
No, tra Tanah Rata e Ringlet la jungla è intermittente, episodica, già in buona parte umanizzata. Villaggi indigeni sono disseminati ovunque lungo il corso del Bertam. Preannunciano già, oltre Ringlet, il fitto addensarsi di popolazione che presidia i due fianchi della vallata, colonizzati da uno sterminato, impressionante susseguirsi di serre.
Serre ortofrutticole arrampicate sui pendii, appese ai fianchi delle colline, affastellate l’una sull’altra su scoscesi terrazzamenti, serre dappertutto. Parecchie già raggiunte dall’elettricità, e coltivate ventiquattr’ore su ventiquattro, sfavillanti nel buio, nella nera notte di Cameron Highlands. Intrusioni di luce nella neutra tenebra della jungla, brillano come vetrine di una via di shopping. La luce accelera la crescita delle piantine e le rende più produttive, è per questo che le serre sono illuminate. Le redditizie serre intensive a sud di Ringlet sono un simbolo – in campo agricolo – del recente accelerato sviluppo, del dinamismo economico del Paese, come le piantagioni di palma da olio che rimpiazzano ogni anno chilometri di jungla.
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Le serre sono coltivate da piccoli proprietari terrieri, contadini indigeni perlopiù di etnia cinese. Ed è in una di quelle serre che lavora il padre di Ahmed. Un lavoro umile, da operaio salariato. Quasi tutta la popolazione bumiputra della valle lavora per padroncini cinesi che fanno quattrini con l’ortofrutta, con la coltivazione di fragole, con le piantagioni di tè e con ogni altro genere di commercio.
I cinesi hanno un senso commerciale innato, sanno adattarsi con prontezza ai mutamenti economici di ogni paese, così come un tempo altre specie dominanti s’adattavano ai mutamenti climatici e ambientali. Sono lesti nel fiutare i venti del mercato e da quando nel territorio s’è insediata la diga, nuove prospettive si sono aperte per loro. La recentissima fioritura di numerosi karaoke come Huik-ho, tra Brinchan e Tanah Ratah, ne è solo un esempio d’importanza trascurabile.
Del resto in questo Paese i cinesi – o meglio, i malesi di etnia cinese – devono fare affidamento solo su se stessi e sul loro innato senso del commercio, non hanno – al contrario dei malay bumiputra, il ceppo dominante della popolazione nativa – leggi razziali che li proteggano. Sono obbligati, per sopravvivere, a quest’avido dinamismo mercantile che ne ha fatto la classe imprenditoriale del Paese.
La popolazione malese è composta per tre quinti da malay bumiputra musulmani, protetti da una legislazione fondata sulla razza e sulla fede, che assicura loro privilegi e tutele, accesso ai posti di lavoro pubblici, diritti assistenziali e servizi; nonché pressoché tutti i ranghi dell’amministrazione e il pieno controllo politico del Paese. Cose da cui è esclusa la componente etnica cinese – benché malese da generazioni – che assomma a quasi un quarto del totale; e che, per compensare questo sfavore, ha dovuto industriarsi, e tiene, ma solo fino a un certo livello, le redini dell’economia. Ultimi vengono gli indiani, un decimo circa, in gran parte relegati ai ranghi più bassi della società.
Le tre componenti etniche non si mescolano. Pur abitando nello stesso territorio da molte generazioni, vivendo e lavorando fianco a fianco, ciascuna ha conservato le sue usanze, le sue religioni, le sue festività, i suoi lutti. Per un riflesso discriminatorio collettivo, il sangue si mantiene puro, e i matrimoni misti, pur non essendo banditi, non si producono. Amore e attrazione sessuale obbediscono a principi di segregazione etnica.
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Questo aveva dei riflessi anche sui pregiudizi che tormentavano Ahmed. Era attratto dalla cinese che torreggiava in mezzo alle altre. Ma non se l’era sentita di sceglierla, era stato naturalmente spinto dai suoi pregiudizi verso ragazze indonesiane o del Bangladesh, musulmane come lui.
Kahled, il fratello più sveglio, non si faceva di questi scrupoli. S’era beffato di Ahmed, quando questi gli aveva confidato il suo turbamento, confuso al pensiero della cerimonia al villaggio e della promessa fatta a Masytah… Non era Ahmed il bullo, ma il fratello maggiore. Lo scambio d’identità, da cui era nato tutto questo pasticcio, fu scoperto solo il giorno dopo, quando la polizia comparve al villaggio ed annunciò a Khaled e a Masytah, increduli, una tale sciagura; una sciagura impossibile, dal momento che lui era ancora vivo e vegeto, a casa in pigiama, e si preparava ad andare al lavoro alla Smoke House…
Khaled era semisdraiato sulla poltroncina in fondo alla sala e aveva addosso la stangona cinese che tanto attraeva il fratello. Ahmed la vedeva svettare, grande e autoritaria, al di sopra della vietnamita e dell’indiana, la terna di Khaled. Dominava, imperiosa, conducendo il gioco con le due donne e con l’uomo, e Ahmed non riusciva a toglierle gli occhi di dosso.
Di quando in quando la porta della saletta si apriva, la penombra che vi regnava era tagliata da una lama di luce e una ragazza vestita – un’inserviente – entrava portando del tè, o un vassoio di frutta, o un’altra bottiglia di whisky mediocre e un secchiello di ghiaccio. Depositava tutto sul basso ripiano lungo l’unica parete non occupata dai divani. Poi, discretamente, usciva. Sopra lo scaffale il grande schermo si accendeva delle immagini blu rosse e viola dei videoclip.
La cinese finalmente s’accorse di come Ahmed la fissava. Continuò in quel che stava facendo, voltandosi di quando in quando a lanciargli occhiate furtive, poi più insistenti, e infine sorrisi espliciti. Bisbigliò qualcosa all’orecchio di Khaled e si staccò da lui. Un istante dopo raggiunse il divano di Ahmed. Scostò con decisione la ragazza che Ahmed aveva sopra e finì di servirlo lei. Ahmed si domandava quanto fosse evidente che quella era la sua prima volta in un bordello.
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Alle prime luci dell’alba, quando, reduce dalla sua notte brava, Ahmed giunse in cantiere, doveva essere ancora stordito dal fumo e dall’alcol, e svagato e distratto dal sesso del karaoke. Si congiunse in ritardo alla squadra che lo aspettava all’imbocco del tunnel.
Il caposquadra lo maltrattò. Tutti i compagni di turno erano informati della sua bravata, e incattiviti per il suo ritardo. Si scambiavano battute e sorrisi maligni. Quel galletto diciassettenne l’avrebbero messo a posto loro.
Ahmed vestiva in modo sciatto e trasandato. Non aveva avuto il tempo di ripassare da casa – dove avrebbe dovuto affrontare Masytah, che l’aveva atteso tutta la notte per costringerlo a rispettare il patto – e portava lo stesso paio di jeans a salopette che aveva indosso la sera prima, con una T-shirt a colori vivaci inadatta alla giornata di lavoro in galleria.
Non aveva con sé i Dispositivi di Protezione Individuale – casco, occhiali, mascherina, giubbetto fosforescente, scarpe antinfortunistica – obbligatori per entrare in galleria. Ma il caposquadra – che avrebbe dovuto rimandarlo indietro con una warning letter per quella mancanza (dopo tre warning letters, scattava automatico il licenziamento) – non volle fargli il regalo di una giornata di riposo, a quel bulletto neoassunto, proprio il giorno in cui era di turno domenicale. Gli trovò un po’ d’attrezzatura d’accatto dentro un container – scarpe troppo grandi, un giubbetto tutto strappato, un casco larghissimo per lui – e invece di cacciarlo via come avrebbe dovuto, lo fece scendere in galleria con gli altri. I suoi uomini si fregavano le mani. Gliel’avrebbero fatta pagare, a quel pivello, la sua bravata.
All’imbocco, tutta la squadra avrebbe dovuto sottoporsi ai test d’ordinanza, tra i quali anche quello del fiato per controllare il tasso alcolico (oggigiorno non è ammessa gente che ha bevuto dentro un cantiere, tanto meno in galleria). Ma erano già in ritardo, per colpa di Ahmed che li aveva fatti aspettare, e la sorveglianza la domenica è più blanda. Il caposquadra saltò i controlli e infilò tutta la squadra giù nel tunnel. Se si spicciavano, si disse, forse per pranzo ce l’avrebbero fatta a venirne fuori.
Avessero fatto i controlli, con tutto quel che s’era bevuto nel karaoke certamente Ahmed non li avrebbe passati, l’ufficiale della security non gli avrebbe consentito l’accesso al tunnel e il caposquadra a quel punto non avrebbero potuto che rimandarlo indietro.
Salirono sul basso trenino di servizio, stipati in otto nel vagoncino trainato da un locomotore che aveva a bordo un macchinista indiano e che li portò giù per sei chilometri dentro la montagna, fino al fronte di scavo. Lì, a ridosso della parete di roccia, stava la TBM (Tunnel Boring Machine) la grande macchina di scavo cui quella mattina Ahmed e la sua squadra avrebbero dovuto fare il servizio di ordinaria manutenzione.
Man mano che scendevano, la temperatura saliva. Ahmed non s’era ancora abituato al caldo opprimente dei cunicoli in profondità, all’aria scarsa e viziata che ristagna nel fondo cieco di una galleria, migliaia di metri dentro la montagna. L’aria artificialmente ravvivata dai ventolini, che la soffiano a forza dentro gli imbocchi. Aveva la sensazione che gli mancasse il fiato. Sudava, e stava male per la sbronza non ancora smaltita, e per i compagni che lo molestavano. Ghigni, battute che Ahmed faceva finta di non sentire, spintoni. Chi lo urtava apposta, o apposta gli montava sui piedi o gli piantava un gomito nello stomaco, nel ristretto spazio del vagoncino, o decideva di sedersi al suo posto e lo costringeva ad alzarsi per cederglielo. Piccoli soprusi, i primi assaggi della lezione che gli avrebbero impartito. Barcollante, col respiro affannoso e l’aria spaurita, lo sguardo infantile, lì lì per piangere o per svenire, quella discesa in trenino dentro al corpo della montagna fu un tormento per Ahmed, tutta la squadra si faceva beffe di lui e lo maltrattava.
Scesero dal trenino, s’allontanò dagli altri e subito andò un po’ meglio. La cavità più ampia dov’era parcheggiata la macchina, a pochi metri dal fronte, consentiva di respirare con meno difficoltà. L’aria soffiata dai ventolini arrivava lì più abbondante. Ma faceva sempre un caldo infernale, e quella salopette sotto il giubbotto di sicurezza in tessuto sintetico lo faceva sudare, Ahmed se la slacciò, lasciando le bretelle penzoloni sui fianchi.
La TBM era una macchina gigantesca, un enorme apparato meccanico che penetrava nel suolo tritando la roccia, aprendovi un buco e infilandovi dentro tutta la lunghezza dei suoi centotrenta metri di corpo. E si spingeva sempre più in profondità dentro quel buco, aggrappandosi alle pareti e lasciando dietro di sé un tunnel finito, foderato di un manto di calcestruzzo. Dietro la testa fresante, di otto metri di diametro, s’estendeva il corpo smisurato e spingente, fino all’uscita dei nastri trasportatori, in coda, che raccoglievano i detriti di scavo macinati dalla fresa e li convogliavano fuori, per chilometri di galleria, fino all’imbocco.
Le luci gialle dei fari da caverna illuminavano violentemente il fronte e l’ultimo tratto di galleria: una sorta di momentaneo garage dove la macchina era stata parcheggiata, per ricevere, la domenica mattina, il suo servizio di manutenzione ordinaria. L’illuminazione era stata rinforzata. Tutto era ben in luce, lì dentro, i meccanici dovevano vederci per lavorare in sicurezza.
Quel giorno non avrebbero fatto manutenzione che ai nastri trasportatori. La macchina, ferma solo sei ore a settimana, faceva a rotazione manutenzione alle varie parti del suo corpo. La testa fresante, lo stadio di consolidamento, quello di spinta, quello di posa dei conci. Quella domenica toccava alla coda, ai nastri di estrazione.
Il compito di Ahmed, ultimo della squadra, era il più faticoso e il più elementare. Un manovale di pulizia, il cui ruolo consisteva nel raccogliere e portar via dentro una carriola tutti i detriti di roccia sparsi lungo il tratto di nastro – un centinaio di metri – che correva all’interno del corpo della macchina. Ci voleva un ragazzo minuto, per quel lavoro, un giovane agile, magro e di bassa statura, capace d’infilarsi e controcersi negli angusti anfratti meccanici della macchina, tra pulegge di rinvio e parti non smontabili di corazza, fino a raggiungere gli ingrassatori meno accessibili e pulire e ingrassare gli ingranaggi nascosti.
Faticoso, ma meglio quello, meglio il contatto diretto ed esclusivo con la macchina, che quello con gli uomini. Lontano dai compagni di squadra, infilato negli angoli più riposti della TBM e separato da loro da pezzi meccanici, Ahmed recuperava a poco a poco equilibrio e dominio di sé. Il corpo a corpo con la macchina, le minuzie e la metodicità obbligata del lavoro manuale, lo rimettevano in sesto.
Passarono diverse ore e Ahmed fece un buon lavoro. Pulì e ingrassò tutto il tratto interno di nastro, i rulli e i cuscinetti e i tappeti, e quando fu fuori, dall’altra parte, in coda alla macchina, era lercio e sudato, un ecce homo, sporco di grasso e intriso di polvere di roccia dalla testa ai piedi, ma soddisfatto; esausto, ma nuovamente in pieno possesso delle sue facoltà. Se i compagni l’avessero aggredito adesso, avrebbe saputo difendersi.
Ma non furono i compagni ad aggredirlo. Fu la macchina. Tutti gli altri avevano già finito, e lo aspettavano a ridosso del trenino che li avrebbe riportati fuori, ansiosi di dargli il resto della lezione. Il macchinista era già a bordo, Ahmed era l’ultimo e toccava a lui staccare gli interruttori d’illuminazione e chiudere la cabina di comando e riportare la chiave al caposquadra.
L’aveva fatto decine di volte, ed è proprio incomprensibile che abbia commesso un errrore così banale. E che invece di staccare l’interruttore delle luci, avesse attaccato quello della forza motrice e messo in moto le pulegge dei nastri. E ancora più assurdo, poi, è che la bretella della salopette (che non avrebbe dovuto slacciare, perché non si sta vicino a una macchina con parti meccaniche in movimento indossando abiti svolazzanti, regola elementare che anche un manovale neoassunto dovrebbe conoscere) e che gli pendeva su un fianco, fosse andata a infilarsi proprio tra il rullo e il tappeto appena messi in moto dalla macchina.
Quello che videro i suoi compagni di squadra, già seduti nel vagoncino e pronti ad andarsene, quello che poi raccontarono alla polizia, fu che Ahmed parve come risucchiato dal nastro che improvvisamente era entrato in azione, balzò indietro e schizzò dentro la macchina, come un pesce all’amo strattonato dalla lenza.
Il più lesto raggiunse l’interruttore d’emergenza in quattro-cinque secondi, il tempo minimo che ci vuole per saltar giù dal vagone e correre alla cabina, venti metri più in là. Staccò la corrente, ma quei quattro-cinque secondi furono sufficienti al nastro per trascinare Ahmed per diversi metri dentro il corpo della macchina, tra gli ingranaggi le pulegge e le corazze che aveva appena pulito. La resistenza offerta dalle sue povere ossa fu un’inezia in confronto a quella delle masse di roccia che i motori della TBM erano abituati a macinare. Quel che raccolsero, pochi metri più in là, e che alcuni giorni dopo riconsegnarono a Masytah, non era più un corpo riconoscibile, solo i suoi avanzi digeriti dalla macchina.