Storie dal Festivaletterature di Mantova
Libri senza frontiere
Gazmend Kapllani, Wlodek Goldkorn, Siegmund Ginzberg: tre scrittori, tre testimoni di una condizione scomoda e terribile, quella dell'individuo che cerca un'identità al di là delle frontiere
Facile dire: frontiere. Un muro, una barriera. Che cosa c’è al di qua o al di là fa la differenza di una vita. Sarà per questo che uno dei primi appuntamenti di Festivaletteratura, la settimana di incontri con gli autori di Mantova, alla ventesima edizione, è proprio sulle frontiere e sull’esclusione. Tema che attraverserà molti degli incontri di quest’anno.
Ecco dunque, solo nella prima giornata, il dibattito tra Gazmend Kapllani e Alessandro Leogrande. Ecco il dibattito tra Christiane Taubira, ex ministro della giustizia francese e Domenico De Masi “Se i cittadini non sono tutti uguali” soprattutto quelli con due nazionalità dovute alla migrazione. Ecco l’incontro a tre tra Paolo Di Paolo, Siegmund Ginzberg e Wlodek Goldkorn sulle storie di famiglie ebree che hanno attraversato il secolo scorso spostandosi su, dice Di Paolo, un atlante impazzito.
L’albanese Kapllani racconta, in “Breve diario di frontiera” la sua storia di emigrato colto e plurilingue. Accompagnato da Alessandro Leogrande che il mondo dei migranti conosce bene, come mostra il suo recente Uomini e caporali sullo sfruttamento dei braccianti in Puglia, nella raccolta del pomodoro da sugo e non solo. Tutti ricordiamo l’immagine dell’esodo biblico dell’Albania, quando disfatto il regime oppressivo di Enver Hoxha le frontiere di un paese isolato da decenni si dissolsero (ed è difficile dimenticare il trattamento che l’Italia ha riservato alle 16.000 persone a bordo del mercantile Aurora, stipate in uno stadio di sinistra memoria e poi respinte).
Il bambino Kapllani studiava italiano a otto anni, raccoglieva sulla spiaggia bottiglie di Coca Cola provenienti dall’altro lato dell’Adriatico, contrabbandava libri e letteratura rischiando la prigione. Tentare di evadere da un paese che aveva tagliato ogni contatto con il resto del mondo – «Eppure cantavamo l’Internazionale due volte al giorno», ricorda, «si parlava di proletari di tutto il mondo»: quale mondo? – e sentire musica italiana poteva costare la vita. «L’Albania – dice ora – era una piccola prigione governata da paranoici».
Franato il regime, svaniti i controlli alle frontiere, Kapllani migra verso la Grecia, a piedi. Qui sperimenta la vita da immigrato, indesiderato nel paese comunista, indesiderato in quello capitalista. L’umiliazione di dover chiedere protezione, quella sperimentata da Dante: «Tu proverai siccome sa di sale lo pane altrui». Passata una frontiera, bisogna scavalcarne altre, la lingua, l’identità: «Vista dalle frontiere la storia del mondo si capisce meglio – dice – uscito dalla prigione dei paesi dell’est sono diventato clandestino. Resterò in Grecia 23 anni, imparando la lingua tanto da scrivere il mio primo libro proprio in greco, ma non ho mai ottenuto la cittadinanza: con tutto il tempo impiegato per ottenere documenti e permessi avrei scritto altri dieci libri».
Oggi Kapllani vive negli Stati Uniti e sogna «un mondo senza immigrati, ma di viaggiatori in un mondo di eguali. Ci vuole fegato, ci vuole forza per lasciare il proprio paese e andare in un altro, imparare la lingua, trovare il proprio posto in una città sconosciuta. Del resto da sempre la sopravvivenza dell’uomo dipende dalla capacità di cambiare, di migliorare la propria vita, di superare la sofferenza della povertà e della disuguaglianza». Infine un monito: «Negare la cittadinanza è una vergogna. Come è possibile che i bambini che nascono in un paese dove vivranno e andranno a scuola non siano cittadini? Come si fa a creare scientemente cittadini terza categoria? L’immigrazione è una opportunità. Ma se la si vede solo come minaccia, attenti: può diventare una minaccia».
L’esperienza di essere “l’altro” l’hanno provata anche Siegmund Ginzberg e Wlodek Goldkorn, entrambi prestigiosi giornalisti italiani. La storia delle loro famiglie, ebree entrambe, è fatta di traslochi, mutamenti, esilii. «In Turchia, quando il mio cognome a scuola denunciava una ma non turchità – dice Ginzberg, che ha scritto Spie e zie – mi dichiaravo italiano, ma di italiano non sapevo una parola. In Italia mi dichiaravo turco, poi ho imparato a dirmi ebreo. Ma di quegli ebrei speciali che non vanno in sinagoga. Solo molto più tardi ho detto: sono italiano». Scrivere in una lingua non materna dà una libertà indicibile, dice Goldkorn, come faceva Conrad, come Beckett. Ma quando il conduttore, Paolo Di Paolo, lo interroga sulla seconda parte del suo libro, Il bambino nella neve, sui luoghi della Shoa, Goldkorn esplode. Ricordando il libro di Primo Levi, Sommersi e salvati, dice: «I sommersi sono tra noi. Sono qui, nel nostro Mediterraneo, negli ospedali bombardati in Siria e pieni di bambini, Quando vedo i treni della memoria che vanno a Auschwitz per dire ‘mai più’ penso che lo si faccia per non vedere i sommersi di oggi. Sarebbe meglio non fare visite a Auschwitz e evitare i bombardamenti. E mandare le navi a prendere i migranti al di là del Mediterraneo».