Nella palude dei social media
Le bugie virtuali
Che cosa trasforma tante persone "normali" in cyberbulli? Mascheramento e narcisismo sono diventati i principi base nella nostra vita sociale. Ma solo in Rete. Come spiegano Nicola Lagioia e Chiara Volpato
Chiunque abbia un minimo di dimestichezza col mondo dei social media avrà avuto modo di assistere a una delle frequenti – e ahimè frequentatissime – “risse” virtuali che si svolgono su piattaforme quali Facebook, Twitter, Yotube e altre ancora a forza di retweet e commenti: vere e proprie lapidazioni in rete durante le quali persone insospettabili e, una volta fuori dal guscio protettivo del proprio avatar, piuttosto pacifiche, si trasformano in triviali aguzzini, pericolosi teppisti da strada pronti a tirare fuori i muscoli per impartire indimenticabili lezioni. Le ragioni di tanta efferata indignazione possono essere della natura più varia: un incidente automobilistico, il maltrattamento di un animale, un bambino vittima di violenza o negligenza oppure fatti di portata assai minore, come una dichiarazione – specie se firmata da un personaggio pubblico – che entra in rotta di collisione col pensiero in cui costoro si riconoscono, andando a offendere l’etica che propugnano.
Quando il post chiamato in causa finisce sotto gli occhi dell’utente, in mezzo al calderone di stimoli di ogni genere che vengono rimbalzati da un account all’altro, l’iniziale stato di stupore cede presto il passo a una rabbia cieca, un’eccitazione feroce e incontrollabile domina il bravo navigante che ha finalmente trovato la propria crociata da combattere, armato di mouse e tastiera su cui pestare febbrilmente, per imporre il proprio punto di vista. I termini della comunicazione si radicalizzano e divengono presto paradossali: in virtù di un senso di giustizia che il fruitore della notizia si sente in diritto – anzi, in dovere – di esibire come proprio vessillo, finisce per augurare a chi si è sporcato di una qualche colpa (non importa se solo a suo avviso o anche a giudizio della società e delle istituzioni) “giuste” punizioni che nel più felice dei casi corrispondono alla legge biblica dell’occhio per occhio e in quelli meno felici contemplano forme di tortura che farebbero impallidire i più fantasiosi inquisitori. L’escalation è rapida e violenta: la folla invoca il sangue, la gogna pubblica, propone l’eliminazione fisica dei “mostri” in questione e tutto in nome di un mondo più equo, onesto, democratico. Un modo di agire che finisce per incidere sulla notizia stessa, banalizzandola, erodendone le sfumature (qualora questo passaggio non fosse già avvenuto in precedenza), le contingenze, il contesto culturale e sociale che ne hanno costituito lo sfondo e influenzato gli accadimenti. In una parola, omologandola a una serie di altri fatti e bersagli che suscitano interesse solo in quanto capri espiatori per rabbia e frustrazione, facile sfogo di quel senso di insicurezza che caratterizza l’esistenza dell’uomo da quando cammina su questo pianeta. E un simile senso di precarietà deve essere alla base delle pubbliche manifestazioni di intolleranza che hanno come oggetto, sempre complici i social network, “categorie di persone”: non ha importanza che si tratti di politici o professionisti, omosessuali o omofobi, destinatari a vario titolo di fondi sociali, zoointolleranti o animalisti. Oltre a riempire il Web di dichiarazioni scarsamente rilevanti sotto ogni punto di vista e renderlo un luogo poco raccomandabile, l’effetto del degenerare del tenore degli attacchi è l’appiattimento della visione di una realtà complessa e attraversata – per fortuna – da impulsi, idee e prospettive differenti e a volte molto distanti tra loro, risolvendola in una contrapposizione tra bianco e nero, ove il dialogo che non sia sarcasmo sprezzante o lite furente non viene minimamente preso in considerazione.
Ma questi estremisti che affollano il Web, dove si nascondono nel mondo reale? Perché assistiamo alla metamorfosi di un nostro vicino di casa, conoscente, amico in un predatore assetato di sangue, nel vendicatore della notte o in un essere vagamente antropomorfo che risolve le divergenze di opinione a suon di clava? Cosa trasforma un tranquillo ragazzino in un cyberbullo e cosa spinge una persona qualunque, nell’entrare fortuitamente in possesso di una foto o di un video riguardanti un suo conspecifico (e che magari circolano sul web a causa di uno scherzo di cattivo gusto o di un’ingenuità), a non porsi delle domande, a deridere freddamente la cosa e a condividere il post come se si trattasse di una barzelletta?
Nicola Lagioia, in un interessante articolo recentemente apparso su “Internazionale” (in cui tra l’altro viene auspicata una diversa e migliore fruizione di Internet e delle sue potenzialità), usando una più che calzante metafora stevensoniana, parla di un inquietante mister Hyde che, dismessi i panni del quieto cittadino, si aggira per i corridoi dei social media pronto ad avventarsi sul primo bersaglio mobile che offenda la sua “delicata” sensibilità. Le ragioni che ne motivano la metamorfosi, prosegue Lagioia, hanno a che fare con la riduzione degli altri esseri umani sul web a semplici avatar, una percezione distorta che fa sì che cominciamo a pensare una persona in carne e ossa come vagamente irreale, astratta. Ecco alcuni dei punti attraverso i quali lo scrittore delinea un identikit dello spietato doppelgänger, proponendo anche una spiegazione delle ragioni che lo spingono ad attuare schemi di comportamento così diversi nel traslarsi dall’universo reale a quello virtuale:
(…) Il mister Hyde 2.0 non crede che dall’altra parte dello schermo ci sia un altro essere umano. La cosa, semplicemente, non gli sembra verosimile. E così trasforma e tratta il “colpevole” senza il quale non esisterebbe come una “non persona”.
Quinto. Il problema è che se il mister Hyde 2.0 si ritrovasse quel “colpevole” davanti nel mondo reale, non riuscirebbe a essere così violento. Il maleficio della regressione svanirebbe all’istante. Da una parte scatterebbe un antichissimo meccanismo inibitorio legato all’altrui e alla nostra fisicità (se insulto brutalmente chi mi sta di fronte, quello può arrabbiarsi e farmi male), dall’altra, si attiverebbe al tempo stesso un dispositivo più moderno e altrettanto salvifico: quello legato all’empatia, la consapevolezza che chi ci sta di fronte soffre e sanguina proprio come noi. Di conseguenza, se lo insultiamo con assoluta mancanza di pietà, nel suo sguardo ferito riconosciamo la nostra ferita potenziale, il nostro diritto a non essere calpestati in quel modo.
Oltre ai freni inibitori di natura autoconservativa o empatica che, fortunatamente, animano le relazioni della maggior parte degli abitanti antropomorfi del pianeta coi propri simili, e che sul Web svaniscono miseramente, c’è un’altra considerazione su cui è necessario porre l’accento (contenuta nel primo tra i punti citati): la deumanizzazione di colui o colei a cui accuse, scherno, macabri auguri vengono rivolti. L’uomo perde consistenza, diviene icona, sineddoche distorta di se stesso, fatto di cronaca, immagine, diventa quelle poche righe che ha digitato venendo completamente identificato con una particolare dichiarazione: agli occhi di chi guarda, egli è quelle parole e nulla più. Il suo esistere come individuo complesso nel tempo e nello spazio non ha più significato nel momento in cui capita sotto lo sguardo avido dell’utente Facebook o Twitter, alla ricerca di un modo rapido per gratificare il proprio ego, modo che egli percepisce peraltro come indolore per sé e per gli altri.
Lo slogan che il famoso social creato da Mark Zuckerberg riporta sulla propria homepage è “Facebook ti aiuta a connetterti e a rimanere in contatto con le persone della tua vita”. Ed indubbiamente questa può essere una delle sue tante utilità, assieme alla scoperta e condivisione di contenuti e al suo essere un irrinunciabile alleato per fini promozionali e/o professionali. Il problema viene forse a crearsi quando si cede alla tentazione del vivere per “apparire”, del costruirsi un “io-vetrina”, quando ci si convince che quest’ultimo effettivamente combaci col nostro essere: una sorta di auto-oggettivazione secondo la quale ci chiediamo prima di ogni altra cosa ciò che può desiderare di vedere in noi chi ci guarda: quale nostro io compiacerà di più la folla che ci circonda? A questo scopo selezioniamo le foto più belle, palesiamo i ricordi migliori, le frasi che riteniamo più sagge, i risultati di cui andiamo fieri e, dopo aver plasmato questo nostro “figlio” sempre vincente, lo mandiamo in giro per il Web. Ci rendiamo presto conto che, servendoci di lui, possiamo sganciare una frase al vetriolo, coprire d’infamia qualcuno, elevarci a giudici del prossimo e poi, un istante dopo, tornare al conforto della nostra “altra” vita: un meccanismo che, in parte, ci fa sentire deresponsabilizzati (ed è facile dimenticare che, invece, “verba volant, scripta manent”: sono proprio le affermazioni scritte quelle su cui cui è possibile indugiare con lo sguardo, quelle che sono in grado, volendo, di rovinarci la vita).
Inoltre, se ci sentiamo soli, insicuri, instabili all’interno della normale vita sociale, ecco che i social si trasformano in un suo attraente sostituto che ci dà occasione, appunto, di proiettare l’immagine di successo che desideriamo e stringere rapporti più o meno fittizi; fin qui niente più dell’aspirazione tutta umana di identificarci con un gruppo di nostri consimili offrendo loro un quadro dotato di forte appeal, attribuendoci valori e un’apparenza che possa essere condivisibile dalla cerchia di persone con cui vogliamo entrare in contatto o di cui aneliamo a far parte. “Su Internet nessuno sa che sei un cane” era la battuta che si scambiavano due dei migliori amici dell’uomo sorpresi di fronte al monitor del pc da una celebre vignetta, apparsa sulla rivista “New Yorker” nel 1993, che ironizzava sul problema dell’identità nella rete e sui modi secondo cui è possibile distorcerla. Ma quello di “barare”, migliorando la nostra “immagine pubblica” è un impulso che tutti in minore o maggiore misura avvertiamo e che, nell’ideare anche i primi più rudimentali social e “aggregatori” di chat, è stato tenuto ben presente.
Il problema della vita in vetrina sul Web è che si può “barare” in grande e, in momenti di insicurezza, si può finire per dipendere dal fatuo senso di appagamento derivante da una moltitudine di like su un proprio post o commento o dal moltiplicarsi dei follower, sovrapponendo e mescolando reale e virtuale. Una sublimazione che va alimentata, proprio come i tamagotchi così in voga qualche tempo fa: l’espansione ipertrofica dell’ego sul web auspica l’esteriorizzazione e la manifestazione compulsiva del proprio pensiero, possibilmente su argomenti scottanti, di cronaca. Pronunciarsi, firmando uno dei numerosi commenti indignati o inferociti di fronte all’ultimo “mostro”, diviene indispensabile al fine di sancire la coesione all’interno del gruppo (di commentatori, di amici virtuali) a cui si reputa di appartenere e, contemporaneamente, il distacco nei confronti di coloro che consideriamo outsider. La condivisione dell’atto con molti altri utenti ci fa avvertire meno il disagio di azioni e affermazioni che, con tutta l’attenzione concentrata solo sul nostro agire, forse non avremmo avuto il coraggio di fare: come si suol dire, “l’unione fa la forza”. Un meccanismo molto ben oliato come quello della distribuzione della colpa è coadiuvato, a rafforzare il nostro disimpegno morale in merito a un comportamento derisorio e diffamatorio, da autogratificanti confronti secondo cui l’oggetto della nostra disistima è sempre e comunque colpevole di qualcosa di peggio, che lo rende meritevole bersaglio della lapidazione virtuale in corso.
Ma ciò che potrebbe e dovrebbe fornire uno spunto di riflessione, soprattutto davanti al moltiplicarsi di vere e proprie “vittime” del Web che, perseguitate da una moltitudine di utenti agli occhi dei quali divengono il capro espiatorio perfetto, perdono il lavoro, la reputazione e persino la vita, è la preoccupante attribuzione al prossimo di tratti non più umani, della sua riduzione a un’astrazione, una svalutazione facilmente catalizzata dal fenomeno di mascheramento da una parte e narcisismo dall’altra tanto comune sulle piattaforme social.
In un suo interessante saggio (Deumanizzazione, Editori Laterza, 2011) la psicosociologa Chiara Volpato indaga le pratiche deumanizzanti, ovvero il pensare chi è considerato “altro” da noi come incompleto, animale, oggetto: l’impiego di definizioni, metafore e atteggiamenti che facciano percepire un essere umano come non più tale giustifica la violenza che gli viene arrecata (una modalità comunicativa che i mezzi d’informazione hanno spesso adottato e diffuso, dalle loro origini fino a oggi), il suo sfruttamento, l’umiliazione. Che si tratti di deumanizzazione esplicita o sottile, oppure di oggettivazione, il fine è sempre lo stesso: legittimare un comportamento abietto e che normalmente nell’uso civile sarebbe bandito o condannato. Qualcosa di preoccupantemente simile e altrettanto spiacevole avviene sotto gli occhi di tutti sui social media e, forse, studiare più a fondo il fenomeno potrebbe rivelarsi utile a proporre soluzioni che tengano alla larga drammatici epiloghi nel mondo reale. Uno sviluppo proficuo potrebbe consistere nel rendere le nuove generazioni più consapevoli del peso delle proprie azioni e della portata delle proprie parole anche quando trovano espressione attraverso una tastiera o il semplice clic del mouse per condividere un post o proporre un tweet. Oppure indagare più a fondo i meccanismi che sono alla base della progressiva perdita della percezione altrui come persona in carne e ossa, non molto dissimile da noi, potrebbe aiutarci a formulare – in un futuro non troppo lontano – delle basi etiche più solide a regolare la comunicazione sul web: qualcosa che, situandosi a metà strada tra una grammatica e un’educazione civica applicata al mondo virtuale, sia in grado di mettere in luce e tener vivi una serie di valori (dall’importanza della legalità al riconoscimento dei diritti altrui). Non ultimo, quel prezioso senso di empatia che salvaguarda il nostro vivere sociale ma che, al riparo dietro lo schermo del nostro pc, pare venir meno.
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Nelle foto: opere di Banksy