La voce del poeta: Fabrizio Dall’Aglio
La lingua dei colori
Esprimere il senso delle cose, restituire il modo in cui ci parlano o in cui noi le facciamo parlare. Per il poeta emiliano, direttore editoriale della Passigli, chi scrive deve rincorrere i propri testi, raggiungere, di volta in volta, la linea dell’orizzonte espressivo che sta sempre al di là di noi
L’ultima raccolta di Fabrizio Dall’Aglio, edita da Passigli nel 2014, si intitola Colori e altri colori (96 pagine, 12,50 euro) e si configura come l’ideale approdo di un percorso iniziato con Quaderno per Caterina (1984) e proseguito con Hic et Nunc (1999) e L’altra luna (2006). Il dettato di Dall’Aglio, poeta schivo e appartato, è discreto, pacato, riflessivo, lontano anni luce rispetto alla poesia esibita di tanti autori contemporanei, senza al tempo stesso indulgere intorno a un classicismo di maniera, di stampo autoreferenziale, ma affondando gli endecasillabi in un contesto che trova in una levità di matrice novecentesca (Bertolucci, Penna, Betocchi) coniugata al tema della memoria la propria profonda ragione d’essere.
Nel suo ultimo libro è indubbio che l’elemento cromatico sia quanto mai presente, con chiari riferimenti sia al precedente di Giotti sia alla pittura astratta e figurativa. Si tratta di una scelta consapevole?
No. In realtà, il titolo Colori è nato intorno a una piccola sezione di brevi poesie, ciascuna delle quali aveva al centro un colore, solo successivamente ho pensato di estenderlo all’intera raccolta, aggiungendo e altri colori. Per me, anzi, l’importante sta in questa aggiunta, perché due sono le principali ragioni di questo titolo, diciamo, più esteso, una biografica – il ritorno a vivere in campagna dopo tanti anni – e una di poetica. Infatti io credo che la lingua della poesia si caratterizzi per la sua fisicità, è dalla fisicità della parola poetica che scaturisce tutto il resto: la musica, sopra ogni cosa, ma non solo la musica. Il colore fa parte di questa fisicità, che sia espresso o meno.
Paolo Lagazzi ha paragonato la sua poesia alla levità di Attilio Bertolucci, a quella sua pacata, trasognata inflessione di voce che sembra aderire con estrema empatia alla conformazione di una nuvola o alla delicatezza di una rosa. È d’accordo?
Il paragone, naturalmente, mi lusinga, ma credo che lo stesso Lagazzi non volesse spingerlo troppo oltre, penso si trattasse solo di un esempio, benevolo nei miei confronti, per accennare a quel tipo di empatia di cui lei parla; la quale però, e torno al ragionamento precedente, esprime un senso delle cose, e della lingua in cui ci parlano o in cui noi le facciamo parlare, che è o dovrebbe essere caratteristico di chi scrive, e in particolare di chi scrive poesia.
Lei ha pubblicato con estrema parsimonia. Pur partendo dal presupposto che non esistono regole fisse non ritiene che, a lungo andare, l’esporsi con troppe raccolte anche da parte di autori di rilievo possa risultare controproducente?
Non credo che sia controproducente in sé, lo può essere quando è rivelatore di una scarsa capacità di giudizio riguardo alle proprie cose. Ma, intendiamoci, il sovraffollamento, anche quello personale, riguarda tutt’al più il nostro limitatissimo presente, il tempo poi farà le sue scelte, che sono sempre molto drastiche. Così è sempre stato, del resto. Aggiungo, per quanto mi riguarda, che una volta che ho scritto una poesia e l’ho fatta leggere a quattro o cinque amici, per me questa è già una pubblicazione. Per far sì che decida poi di estendere questa pubblicazione attraverso un libro vero e proprio, devo avvertire una sorta di presa di distanza nei confronti delle poesie che ho raccolto, qualcosa che mi faccia ritenere, magari erroneamente, che un certo discorso si è concluso. Un mio libro per me è sempre qualcosa di tombale, vi seppellisco un’epoca che ho vissuto.
Dal suo osservatorio di direttore editoriale della Passigli per cui cura la collana di poesia, che idea si è fatto della situazione poetica in questo frangente storico?
Non credo che il mio sia un osservatorio privilegiato, le ragioni dell’editoria sono molto diverse da quelle della letteratura, e questo in generale. Io amo la letteratura, non l’editoria. Il caso ha voluto che me ne occupassi per professione, e cerco di fare del mio meglio, ma sono da sempre molto scettico riguardo a questo mestiere. Comunque sia, e parlando da lettore, faccio fatica ad avere un’idea generale della situazione poetica attuale, nel senso che credo che la poesia sia sempre fatta di casi particolari. Se devo fare una riflessione più generale, posso soltanto dire che ritengo che la poesia sconti oggi, come del resto le altre arti, la scarsa consapevolezza di chi la scrive, diciamo una consapevolezza apparentemente “di genere” ma che in realtà riguarda la sua stessa sostanza, e dunque il senso che può avere ancora al di fuori di chi la scrive.
Lei ha collaborato a lungo con Mario Luzi che, fino alla sua scomparsa, l’ha preceduta nella direzione della collana poetica della Passigli. Come lo ricorda?
Lo ricordo come in una breve poesia che gli ho dedicato quando ho saputo della sua morte, e che ho pubblicato nella raccolta L’altra luna: come un amico e come un maestro, ma precisando bene il significato di queste due parole. “Amico”, non perché tra di noi ci fossero chissà quali rapporti, ma per il piacere reciproco di incontrarci e per la progressiva personalizzazione delle nostre conversazioni; quanto all’idea di “maestro”, ho sempre pensato che si tratta di qualcosa che va al di là dell’ammirazione che possiamo avere per le opere di qualcuno che ci ha preceduto e che investe invece l’intera personalità dello scrittore: la sua determinazione, la sua coerenza, la sua “forma nel mondo”, se così posso dire. In fondo, per me Luzi ha rappresentato l’incarnazione più estrema dell’umanesimo fiorentino, parlando con lui era come se mi si agitasse dentro tutto il mondo dei miei studi e di quelle mie amatissime letture, era come se tutto questo si rivitalizzasse grazie alla persona che avevo di fronte. Questo mi accadeva con lui, non con altri scrittori che pure incontravo a Firenze e con i quali ho avuto un rapporto di amicizia forse maggiore, come Romano Bilenchi e Oreste Macrí.
Quali sono i suoi autori di riferimento?
Credo che il nostro rapporto con gli scrittori sia sempre dinamico, dunque non potrei limitarmi a pochi nomi, oggi non direi più gli stessi di venti o quaranta anni fa. Inoltre, più che gli autori io sento le opere, e certamente nella mia formazione romanzi come il Don Chisciotte, L’idiota, America, L’uomo senza qualità, tanto per citare i primi che mi vengono in mente, hanno avuto un peso non minore di raccolte o poesie dei poeti che più ho amato, il cui elenco sarebbe vastissimo, anche se non volessimo estenderci alla classicità greca e latina. Parlando di poesia non italiana, e volendosi accontentare di nominare solo due o tre titoli del Novecento, direi senz’altro il Llanto di García Lorca, I dodici di Blok, le Elegie di Rilke. Ma per chi scrive credo che il principale riferimento sia la propria lingua, e così ritengo che i miei autori siano soprattutto i nostri grandi scrittori del passato, a cominciare da Dante, Petrarca, Poliziano e Leopardi, per arrivare al nostro ricco Novecento, che resta pur sempre anche il mio secolo e del quale dunque, come tale, non posso non sopravvalutare l’importanza, come tutti facciamo con il nostro presente. Ma se dovessi fare un solo nome del Novecento italiano, non farei quello di un poeta in particolare, ma direi, per l’importanza che ha avuto per me, Luigi Pirandello. Non come poeta, naturalmente, ma come narratore (a parte le novelle, considero i Quaderni di Serafino Gubbio operatore un capolavoro assoluto) e come drammaturgo.
Cosa sta preparando attualmente?
Da tempo avevo l’idea di raccogliere dei testi da me scritti negli anni Ottanta che, per una ragione o per l’altra, sono rimasti inediti o, in qualche raro caso, sono apparsi separatamente su qualche rivista o pubblicazioni consimili. Non si tratta solo di poesie, ci sono anche prose più o meno brevi e aforismi, e dunque la mia difficoltà principale sta proprio nell’assemblare nella maniera più convincente possibile questo volume. Non so ancora a dire il vero se ci riuscirò, perché quando dico “convincente” intendo dire che dovrò poi esserne convinto.
Può commentare la poesia inedita qui presentata?
Posso soltanto dire che è una poesia che mi segue da qualche anno e alla quale fino a un mese fa non ero riuscito a dare una veste definitiva. È una cosa che mi capita abbastanza spesso, è come se per concludere certe poesie avessi bisogno di un tassello che mi manca e che solo la mia vita successiva riesce a fornirmi. Io credo molto poco, almeno per le poesie, alle revisioni formali “a posteriori”, le considero spesso un vezzo poco proficuo e il più delle volte dannoso, anche perché per intervenire occorre recuperare il clima psicologico in cui sono state scritte; diverso invece è il caso della stesura di una poesia, che a volte può essere davvero molto accidentata e, in certi casi, anche superiore alle nostre “forze”, magari persino alle nostre potenzialità, perlomeno di quel momento particolare. Credo, in un certo senso, che chi scrive debba sempre anche rincorrere i propri testi, la linea dell’orizzonte espressivo sta sempre al di là di noi e occorre dunque, di volta in volta, saperla raggiungere.
***
(inedito)
A spingerci sull’orlo del dirupo
fu il vento che spazzava la collina
sentii gridare aiuto, e ancora prima,
mentre correvo lungo la carraia
vidi uomini intorno alla ragazza.
Era una donna fragile e i capelli
sembrava le inondassero la schiena.
Con le mani legate si muoveva,
come per benedire la sua fine.
O forse non ho visto quella donna,
ho soltanto saputo che esisteva
nel suo spicchio fatale del mio mondo.
Eccolo, il mondo. Accolto a braccia aperte
da una folla questuante di detriti.
In questa piantagione di idiozia
persino la violenza sembra un senso.
Fabrizio Dall’Aglio