Domenico Calcaterra
Ancora su “Pasolini ragazzo a vita”

Il corpo del poeta

Renzo Paris riflette su arte e vita inseguendo l'assenza di Pasolini: «Solo così si vedono le ombre, e nello stesso tempo il senso diventa una metafora»

Nel libro del ritorno alla poesia, Il fumo bianco (Elliot, 2013), Renzo Paris, nel dire di una Roma «crocevia dei poeti», nel ripercorrerne la genealogia, per giungere, infine, a quei «ragazzi a vita» dell’ultima scuola romana (della quale rimane voce e memoria storica), titolava i suoi versi prendendone in prestito uno di Rimbaud, questo: «La poesia? Una cosa da ragazzi!» –, peraltro culminando, quei versi, in una cadenza malinconica, essendo i compagni di strada oramai assimilati a larve, nulla più che «ombre, solo ombre»… Perché per Renzo Paris è il deserto della memoria «il pianeta che muore», l’interiore teatro di «icone in movimento» sempre prossime a dissolversi (cito ancora da quell’autobiografico quaderno poetico, seguito a vent’anni di distanza da Album di famiglia, 1990). Sentimento che è alla base anche del suo recente Pasolini ragazzo a vita (Elliot, 2015, pp. 177, € 18,50), non potendo più procrastinare la necessità, appena un attimo prima che dilegui, di fissare su carta il suo personale romanzo su PPP, a chiudere l’ideale trilogia dedicata agli scrittori amati al tempo della sua emigrazione nella Capitale, dopo la biografia di Moravia. Una vita controvoglia (Castelvecchi, 1996) e Il fenicottero. Vita segreta di Ignazio Silone (Elliot, 2014). E non stupisce di ritrovare ancora qui, in esergo, quel verso passepartout tratto da Rimbaud che non a caso cortocircuita poesia e giovinezza. Per un libro che, incatenando inequivocabilmente l’autore al suo oggetto, sembra rimandare a una voluta specularità: attraverso il sapiente montaggio dei tasselli memoriali legati alla frequentazione di PPP, il «ragazzo a vita» Renzo Paris non fa altro che innalzare un altare allo scrittore che, più di tutti, quel mito ha saputo incarnare (fino alla sua tragica fine).

Se il mio argomentare è plausibile, anche quest’ultimo pezzo mancante è edificato a principiare dalla devozione ai due imperativi categorici – l’esperienza e la testimonianza – che, da sempre, hanno contraddistinto la sua scrittura, nell’inseguimento di una fragile metrica del ricordo. Abbandonando da subito ogni tentazione agiografica, Paris racconta non del Pasolini borgataro di Ragazzi a vita o di Una vita violenta, ma del sobrio frequentatore dei salotti romani: il «Pasolini borghese dentro la città eterna», in quei nove anni in cui subì il fascino della sua presenza, dal lontanissimo 1966 fino all’anno della sua morte.

renzo paris pasoliniUn libro che, volutamente, non è interessato a sciogliere il nodo tra vita e opera dello scrittore: gioca tra lo iato e la coincidenza, si aggira tra Sainte-Beuve e Proust, per dire della contraddizione di quell’uomo «spaccato in due», il borghese diurno e il borgataro notturno (contraddizione di cui si prendeva gioco l’amico Dario Bellezza). Ma ad affascinare il giovane Paris è sempre l’intellettuale, il polemista dalla «spiccata volontà pedagogica»: epperò di una pedagogia tutta esplicita, quasi programmatica, opposta a quella, al contrario implicita e misteriosa, di un’altra decisiva presenza della sua vita romana, Alberto Moravia. Anche nel rivivere la delusione provata allora, nel Sessantotto, quando, dopo i fatti di Valle Giulia, arrivarono come una doccia fredda i brutti versi pasoliniani (scritti per essere fraintesi) de Il PCI ai giovani, Paris prende qui spunto per illustrare quello che fu lo stile intellettuale di PPP, ossia la tendenza (in prima battuta) a scandalizzare e provocare, per poi indugiare, riflettere, sviscerare. Così come, risparmiando al lettore l’ennesima minuziosa ricostruzione dell’accaduto e consegnandoci invece il suo personalissimo resoconto, rifugge da ogni enfasi e dietrologia attorno alla morte tragica dello scrittore, eludendo la trappola di quell’«eccesso di retorica» che, in un articolo scritto a caldo da un per nulla commosso Luigi Pintor su “Il Manifesto”, veniva stigmatizzato come cosa «non buona», segno anzi di una pericolosa confusione, secondo un procedimento emotivo che rischiava di trasformare (a suo dire) l’eretico e corsaro PPP in un (postumo) maestro di vita. Quel Pintor che pure aveva considerato il poeta di Casarsa un seduttore della gioventù delle borgate. Va detto di passaggio che oggi, tra retorica e antiretorica, lo scrittore scomodo che dava fastidio tanto a destra quanto a sinistra, indigesto soprattutto agli intellettuali, di cui parlava Rossana Rossanda nel suo articolo-necrologio (“In morte di Pasolini”), è stato disinnescato dal trasversale reclamarne, da ogni parte, il santino.

pasolini-roma-renzo-parisNon sfugge la centralità di un piccolo indizio a fornire un dato inoppugnabile, forse la più plausibile entratura per comprendere l’opera di PPP: la sacralità del corpo innalzato, da un certo punto in poi, a medium conoscitivo per antonomasia. Si leggano alcuni versi, non a caso ripresi da Paris, contenuti nel canzoniere intitolato L’hobby del sonetto (1971-73), frutto della disperazione per la fine del sodalizio amoroso con Ninetto Davoli (che l’aveva «tradito» innamorandosi d’una ragazza che poi finì per sposare), laddove così si esprimeva: «Quanti ragazzi come voi mi odiano e mi amano /Non ho altro da gettare nella lotta / che il mio corpo / esso è al loro fianco ma io sono lontano». E l’immagine del suo corpo straziato all’Idroscalo di Ostia, mi sembra il simbolo dell’offesa più grande che si potesse arrecare all’uomo e al poeta (una morte che sembra egli stesso abbia temuto e insieme corteggiato). Del resto, nella vita intesa come agone, in analogia con la scena teatrale dove «la parola vive di una doppia gloria» (così Pasolini fa dire a un certo punto all’Ombra di Sofocle in Affabulazione), nella nota ribattuta della parola («scritta e pronunciata») che si accende, non solo è importante l’evocazione della realtà dei corpi per mezzo delle sole parole, ma soprattutto che ciò si compia proprio tramite «quei corpi stessi». Ecco, nell’opera come nella vita di PPP il corpo era tutto: principio e fine, tabernacolo dell’esistenza. Perché, come fa dire ancora in Affabulazione (1969) al PADRE, la realtà non è un enigma da risolvere, ma bisogna piuttosto conoscerla, riuscire a penetrarne il mistero. In un parallelo e reciproco mutuo regredire, di un PADRE che si fa FIGLIO e di un FIGLIO che assume una paternità sacrificale, in Affabulazione al FIGLIO, come a PPP, non rimane che gettare – nella lotta contro il padre-mondo – «il suo corpo, nient’altro che il suo corpo». Si capisce perché Paris abbia custodito, per oltre quarant’anni, come si trattasse della «reliquia di un santo laico», il dattiloscritto originario della tragedia con le correzioni autografe, che Pasolini volle affidare all’allora giovane redattore e correttore di bozze di «Nuovi Argomenti».

Il torto maggiore che si possa fare a questo libro è rubricarlo, sbrigativamente, nel novero dei tantissimi memoriali dedicati all’autore di Petrolio e di Salò. Si è già detto in avvio di quel sentimento dominante che lo attraversa e da cui trova ragione il ritornare, a quarant’anni dalla morte, nei luoghi dei suoi incontri pasoliniani. A spingerlo è la convinzione che, come spiega in un inserto metanarrativo che ha tutta l’aria di una scoperta dichiarazione di poetica, un luogo «per entrare nel proprio immaginario e suscitare emozioni deve essere visitato dalla morte o dalla assenza». E conclude: «Solo così si vedono le ombre, e nello stesso tempo il senso diventa una metafora». Allora non rimane che da chiedersi di cosa sia, in definitiva, metafora il generoso farsi dello scrittore «segugio di un’ombra»? Dietro questa luce, è facile leggerne il romanzo estremo di una contraddizione sul commiato dalla giovinezza e insieme sull’irrinunciabilità all’utopia del perdurare di essa come atteggiamento conoscitivo nei confronti del mondo. La restituzione di una visione sciamanica della realtà, per cui il soggetto si trova sempre lanciato tra vita e morte, tra l’essere e lo svanire.

pasolini-moraviaQualche parola, infine, sulla sacrosanta e per nulla accessoria etichetta di romanzo, perché esso, o almeno la sua declinazione di questi tempi più battuta, quella che resiste, e talvolta con esiti di tutto rispetto, si è perlopiù mutata in “qualcosa di scritto”, per definizione ibrida partitura dell’io, in un gioco proiettivo intenzionale e smaliziato per cui nel momento stesso in cui l’autore si assume il peso del racconto in prima persona, fonda il suo venire al mondo come personaggio. E quando s’interroga, sulla pagina, su che libro scriverà su PPP, non fa che chiarire (in pubblico), a se stesso, che vorrà essere proprio lui a parlare: «non lo scrittore o il saggista o il poeta, ma proprio io, con la mia voce e questo corpo che, invecchiato, ancora resiste» (siamo di nuovo all’ossessione del corpo, sotto il segno della quale riconoscersi fratello minore del poeta de Le ceneri di Gramsci). Con questo Pasolini ragazzo a vita, Renzo Paris – laddove «sulla persona è cresciuto il personaggio» (come nella migliore letteratura) –, compie un viaggio intimo che ha tutto il peso di un’agnizione personale, una privata epifania.

domenico.calcaterra@gmail.com

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