Visto al Théâtre du Châtelet di Parigi
Bob Wilson e Faust
Quattro riflessioni sul "Faust" di Goethe smontato e rimontato a mo' di opera rock da Bob Wilson per il Berliner Ensemble. Uno spettacolo che aggiorna il metodo brechtiano in chiave pop
Immaginate quattro Faust e tre Margherite. Immaginate che, se la moltiplicazione dei Faust può essere dettata dalla necessità (poetica) di mostrare ogni sfaccettatura del normotipo umano che vuole tutto e subito, probabilmente la scomposizione delle Margherite dipende soprattutto dalla voglia di potenziare l’impatto sonoro del personaggio per inserirlo al meglio in una sorta di musical/opera pop. Immaginate gli angeli con le ali piumate (tipo Il cielo sopra Berlino) e Mefistofele rigorosamente con le corna, come nelle figurine Liebig. Immaginate che il contratto tra Faust e il diavolo sia stato siglato in una sorta di gabinetto del dottor Calligari, che il processo a Faust che ha ucciso il fratello di Margherita si trasformi in un sabba e che la ricerca del nuovo ordine mondiale (progettata da Mefistofele tramite Faust) accada in un giardino fiorito. Immaginate tutto questo è avrete qualcosa di simile al Faust di Goethe che Bob Wilson, con musiche e canzoni di Herbert Grönemeyer, ha messo in scena per il Berliner Ensemble e che in questi giorni si replica al Théâtre du Châtelet, a Parigi.
Molte cose ci sono da dire a proposito di questo kolossal (tre ore e mezzo di spettacolo, decine e decine di interpreti, l’orchestra in buca, il testo di Goethe sostanzialmente rispettato per quanto riguarda la prima parte e invece smontato e rimontato in libertà nella seconda per mano di Jutta Ferbers). Vediamone qualcuna in ordine sparso.
Primo. È interessante seguire il percorso creativo recente di Bob Wilson (prendete anche Odyssey visto di recente anche allo Strehler di Milano) perché ci dice molto sulla parabola delle avanguardie teatrali (Italia compresa). Bob Wilson non ha rinunciato alle sue geometrie luminose; continua a inserire attori e forme in uno spazio algido, rarefatto, matematicamente definito; prosegue nel suo gioco di libere associazioni tutte interne all’immaginario colto, ma di sicuro punta a un teatro pop. Ma proprio popolare popolare. Come qui dicono le canzoni scritte dal cantautore più acclamato di Germania, e l’orchestrazione facile (con l’innesto di walzerini e jodel al momento giusto). Come qui dicono quei segni apparentemente banali (le corna di Mefistofele, la cuffietta da Heidi delle Margherite). A essere ben disposti nei suo confronti, si può dire che Bob Wilson ha deciso di coniugare in basso la sua cultura alta. Un po’ quello che fece Mario Martone, da noi, con la sua Carmen. Morale: dentro al grande teatro commerciale, perché tale è questo enorme Faust, batte un cuore intelligente. Si può fare.
Secondo. Assistendo a questo spettacolo pensavo: chi mai, in Italia, produrrebbe una cosa del genere? Quale teatro nazionale, tric, trac o centro di produzione? Basta studiare la locandina: i collaboratori artistici sono trentotto; l’orchestra, in scena, è di otto elementi; gli interpreti sono più di trenta. Non voglio nemmeno immaginare quanti macchinisti di muovano dietro le quinte… Si può pensare ciò che si vuole di questo Faust (pop, esagerato, congelato, ma certo un grande spettacolo che riporta alla luce il più classico dei classici tedeschi), ma di sicuro è un modo per rivitalizzare la grande tradizione teatrale tedesca. Oltre a tutto, in chiave brechtiana, dal momento che ho il sospetto che tutto questo pop, tutta questa banalità ostentata non sia che un aggiornamento dell’apparato straniante del maestro. Ripeto: quale istituzione italiana farebbe, che so, Goldoni, Pirandello o simili con un tale apparato produttivo?
Terzo. Ricordo con molta lucidità il Faust visionario con il quale Giorgio Strehler volle chiudere la sua carriera di regista. Il testo, va da sé, era lo stesso, ma mentre Bob Wilson gioca, anche sforbiciando l’apparato filosofico di Faust e preferendogli il coté amoroso, Strehler ne faceva un esclusivo rovello filosofico. Il Faust di Strehler (lo interpretava lui stesso) provava a sostenere il conflitto tra la propria fame di conoscenza e la sfuggevolezza della vita vissuta; il conflitto tra idee e concretezza della cose. Il Faust di Bob Wilson si limita a infilare il naso nella vita degli altri; con curiosità, quasi ostentando idiozia bambinesca. Il Faust di Strehler era un visionario, questo di Wilson è un pazzo (e infatti la prima scena ce lo presenta in una sorta di manicomio). Corrono vent’anni tra uno e l’altro spettacolo: vent’anni nei quali l’interrogarsi sul senso di sé e della conoscenza è uscito di moda. Lo spettacolo che ho visto ieri al Théâtre du Châtelet lo dice chiaramente. Per quanto mi riguarda, il Faust di Strehler (nella sua versione completa) era uno spettacolo lungo e ossessivo, questo di Bob Wilson è lungo e basta.
Quarto. Questo spettacolo – se ce ne fosse bisogno – dimostra la lungimiranza artistica delle istituzioni tedesche. Claus Peymann, direttore del Berliner e grandissimo regista in proprio, se c’è da costruire kolossal da vetrina internazionale sa farsi da parte per chiamare una star globale come Bob Wilson. E lo fa per convinzione artistica, non lo fa perché un codicillo del regolamento nazionale glielo impone, come da noi – viceversa – si è dovuta introdurre una norma limitativa per evitare che i direttori-registi occupassero tutti gli spazi disponibili delle istituzioni occasionalmente date loro in gestione. Viene da pensare che altrove ci sia più apertura. Ma anche, e si torna al punto due, perché solo da noi si centellinano i finanziamenti alla cultura e all’arte: altrove se ne riconosce il valore fondativo. Certo: anche rimaneggiando pesantemente il più classico dei propri classici.