La voce del poeta: Valerio Magrelli
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Sei raccolte poetiche, diverse l’una dall’altra. Per Magrelli il senso di un libro risiede nella distanza dal precedente, è una nuova testimonianza di disorientamento, una segnalazione che l’autore lancia prima di tutto a se stesso. E nel recente “Il sangue amaro” passa dalla pacatezza all’invettiva. Mentre pensa a Pollicino…
Valerio Magrelli è uno dei più conosciuti e apprezzati poeti italiani. Ogni sua raccolta costituisce, soprattutto per gli addetti ai lavori e gli appassionati di poesia, un avvenimento editoriale, sia per quel che riguarda i temi trattati, spesso ispirati a problemi di attualità, sia per lo stile personalissimo con il quale affronta tali temi. Il linguaggio di Magrelli riesce mirabilmente a coniugare una pressoché costante tendenza alla speculazione con uno stile calibrato che rileva le proprie coordinate di tipo ontologico. Oltre che come poeta, Magrelli si è cimentato proficuamente nella narrativa e nella saggistica, confermando di essere un autore quanto mai versatile. Le sue raccolte di poesia sono le seguenti: Ora serrata retinae (1980), Nature e venature (1987), Esercizi di tiptologia (1992), Didascalie per la lettura di un giornale (1999), Disturbi del sistema binario (2006). L’ultima silloge, pubblicata nella “bianca” di Einaudi nel 2014, si intitola Il sangue amaro (154 pagine, 13 euro).
Nella sua ultima raccolta, Il sangue amaro, è percepibile una svolta rispetto ai libri precedenti.
È come se questo libro rappresentasse un capovolgimento rispetto ai miei primi testi, composti alla metà degli anni Settanta e pubblicati all’inizio degli anni Ottanta. Ovviamente è cambiata la mia posizione in un mondo che a sua volta cambia. Rispetto allo sforzo di razionalizzazione presente in Ora serrata retinae, la mia raccolta d’esordio, è evidente una maniera di scrivere più pulsionale, meno trattenuta, nonostante io sia sempre attento alla forma metrica, ritmica e strofica. Il “sangue amaro” del titolo e della poesia eponima deriva dal “sangue cattivo” (il mauvais sang) di Rimbaud. Mentre prima aspiravo a una sintassi meditata, pacata e speculativa adesso vi è una sorta di abbandono all’invettiva. È come se la mia scrittura fosse passata da una fase più spiccatamente filosofica e riflessiva alla poesia engagée, di stampo civile. In questo senso sono da intendersi anche i due pamphlet Il Sessantotto realizzato da Mediaset: Un dialogo agli inferi (2011) e La lingua restaurata (2014).
Quali sono i suoi autori di riferimento?
Per quanto riguarda le ultime letture, vorrei fare i nomi di due giganti della narrativa: Sebald e Bolaño. Per rimanere in ambito poetico i nomi che più mi appassionano sono quelli di Mandel’štam e Michaux.
Lei è anche un affermato narratore che ha pubblicato libri come Nel condominio di carne (2003), Addio al calcio (2010) e Geologia di un padre (2013). Che rapporto esiste tra la sua poesia e la sua prosa?
Per molti anni ho pensato di non riuscire a scrivere in prosa in quanto i tentativi fatti abortivano continuamente. Poi Gianni Celati mi invitò a comporre due racconti che concernevano vicende in qualche modo autobiografiche. Quello è stato il mio punto di partenza, da lì mi sono reso conto che non riesco a scrivere intorno a fatti inventati, ma che posso invece descrivere vicende che mi riguardano direttamente. Non riesco a dare credibilità a personaggi fittizi, la mia prosa ha bisogno del riscontro con la realtà. In questo, il mio maestro è stato Hrabal, che talvolta scrisse i suoi romanzi prima in versi e solo in seconda battuta in prosa.
Ritiene che il mondo del web abbia modificato il nostro modo di concepire la poesia? Non le sembra che abbia contribuito a creare una sorta di koiné, di balbuzie tribale che ha qualcosa di autoreferenziale?
Nonostante sia indubbio che Internet abbia molti aspetti positivi, vedo moltiplicarsi al suo interno comportamenti aggressivi e violenti, spesso offensivi. D’altro canto la tecnologia non potrà mai sostituire il contatto fisico da cui scaturiscono vari tipi di insegnamento. Basti pensare alla differenza fra insegnamento a distanza e insegnamento “in presenza” (lo ha spiegato bene Recalcati parlando di una Erotica della lezione). Insomma, nella docenza come nella libera discussione, esiste un elemento corporeo, la cui perdita segna le esperienze sulla rete in modo indelebile. Anzi, non escluderei che proprio questa sia la ragione per cui nei blog si accentui oltre misura la rabbia dei partecipanti: forse tanto astio è solo il frutto della inevitabile “sterilizzazione corporea” richiesta dal mezzo.
Può ricordare il compianto Valentino Zeichen, da lei definito uno dei suoi maestri?
Zeichen, nei tempi non sospetti in cui la poesia seguiva altri percorsi (non ultimo quello della disgregazione del significato e della festa del significante), era uno dei pochi autori che si misurava sapientemente con le armi dell’ironia e del distacco, in una lirica di tipo analitico, logico-argomentativa. Io vado indubbiamente in un’altra direzione, e più che all’ironia penso di affidarmi al sarcasmo, ma il suo esempio fu certo prezioso. Era un bastian contrario, andava controcorrente.
Alcuni critici hanno suddiviso il suo percorso poetico per fasi. Che ne pensa?
Ritengo che un libro debba essere come un bengala, che manda segnali dal punto in cui una persona si è smarrita. Io ho scritto sei raccolte che hanno delle caratteristiche completamente diverse l’una dall’altra, sia dal punto di vista formale che tematico. Non mi piace tornare ossessivamente sugli stessi argomenti, ma è una scelta mia personale. Ciò non significa che condanni chi segue questa strada. Lo prova il fatto che il mio pittore preferito sia Giorgio Morandi, con le sue infinite “variazioni sul tema”, ossia, come direbbe Proust, un uccello «che fa sempre lo stesso verso». Come mi è accaduto di scrivere, credo che un libro costituisca innanzitutto un mezzo di segnalazione, corrisponda cioè all’esito di uno smarrimento. Il suo senso profondo risiede infatti nella distanza dal precedente, anzi, nell’averlo definitivamente perso di vista: il nuovo testo è la testimonianza di un avvenuto disorientamento. Deve chiedere aiuto quasi fosse un disperso. Il suo valore sta nel non essere assimilabile a quello antecedente. Alieno, estraneo, è un orfano dell’opera che lo ha preceduto, orfano dell’autore così come si è fino a quel momento configurato. Altrimenti detto (mi permetto un’autocitazione): «Un libro nuovo deve inventarsi il proprio autore, deve far sì che questi diventi capace di averlo scritto – dopo averlo scritto. Un libro nuovo chiede all’autore del precedente di riuscire ad accoglierlo, di riconoscerlo come figlio legittimo. Il libro, se nuovo, si presenta al proprio autore come un bastardo che solleciti l’adozione: chiede il diritto di portarne il nome. Un libro nuovo aspira al patronimico dell’autore. Non rappresenta la prosecuzione di una pratica, bensì la sua sospensione, o l’apertura di un’altra. È un atto di sradicamento, una ammissione di incompatibilità, la richiesta inoltrata dal navigante circa la possibilità di conoscere la propria posizione. Inoltrata a chi? All’autore passato, vale a dire al sé scaduto».
Cosa sta preparando attualmente?
Sto terminando dopo cinque anni un libro sulla traduzione (rime, calligrammi, acrostici), che riprende un’idea di Franco Nasi sulle traduzioni estreme.
Può commentare la poesia inedita qui presentata?
Ho avuto la fortuna di tenere un ciclo di conferenze negli Stati Uniti, soggiornandovi per un mese e mezzo. Visitando New York (purtroppo ancora oggi al centro della cronaca), mi sono imbattuto nel grattacielo che sorge al posto delle Torri Gemelle che non mi ha affatto impressionato, a differenza delle due fontane che sorgono al posto delle Twin Towers. Ai loro bordi sono riportati i nomi delle oltre tremila vittime di quel fatidico 11 settembre. Ebbene, scorrendoli mi sono imbattuto in quello di “Stephen Pollicino”. Sono rimasto di sasso. Quelle lettere mi hanno aperto una serie di inaspettate prospettive: il cortocircuito tra mondo fiabesco e realtà atroce. Avendo già scritto tre testi su questo eroe favoloso (sulla scia del famoso sonetto di Zanzotto), insieme al pittore genovese Massimo Dagnino si è pensato di lavorare a un progetto editoriale che possa raccoglierli tutti.
***
In memoriam
(inedito)
Tra i nomi delle vittime delle Torri Gemelle
iscritti sulla base della fontana-pozzo
io leggo: “Pollicino”.
Che ci fai, Pollicino, in questo cimitero?
Altro che le molliche: fuoco e fiamme!
Che ci fai qua?, gli chiedo.
Come ci sei finito?
Possibile che tu ti perda sempre?
Cerchi di ritornare, ma ti perdi.
Tu ti perdi. Non so,
ti perdi sempre.
Valerio Magrelli