La voce del poeta: Umberto Fiori
Uno come tutti
Individuo e comunità. Due termini da sempre alla ricerca di una definizione nella poetica naturalmente etica di Fiori. Dai tempi dell’esperienza politica degli anni Settanta. Poi c’è la questione della “voce”, strumento identitario per eccellenza…
Il percorso poetico di Umberto Fiori si snoda attraverso un tracciato urbano riconoscibile proprio nei suoi aspetti più degradati e comuni, una Milano che in realtà potrebbe essere qualsiasi altra metropoli o città, con squallide periferie e facciate di palazzi che nascondono ogni sorta di angherie ma anche inaspettate tenerezze, ridendo nel buio con gli occhi sorpresi di un bambino. È evidente che la componente etica sia connaturata al tessuto stesso della sua scrittura: le parole non sono che un mezzo per comunicare qualcosa di importante, devono esprimere un concetto comprensibile e, come tali, non possono che essere alla portata di “tutti”. Ma Fiori non è un moralista, intende semplicemente evidenziare come la nostra vita sia diventata invivibile, tra viaggi esasperanti in treno o in autobus, con passeggeri sospettosi che non ti degnano di uno sguardo.
In tale contesto le rime sono quasi del tutto abolite e spesso risaltano proprio per l’estrema parsimonia adoperata nell’usarle. Gli aggettivi sono pochi e non ricercati, come quelli che potrebbe usare un bambino per lo svolgimento di un tema. Gli stessi incipit sono di una secchezza estrema, come se l’autore volesse riprendere il filo dei suoi pensieri e la poesia non fosse che inesausta riflessione sul senso di vivere a contatto con la gente, sballottata nelle corriere «in mezzo ai campi d’orzo» o che si incrocia con andatura sonnambolica lungo un marciapiedi assolato. La produzione poetica di Fiori è stata raccolta nel 2014 nel volume degli Oscar Mondadori Poesie 1986-2014 (XXXVIII + 294 pagine, 20 euro), con un’introduzione di Andrea Afribo, che ripropone le seguenti sillogi: Case (1986), Esempi (1992), Chiarimenti (1995), Tutti (1998), La bella vista (2002), Voi (2009).
Lei ha militato come cantante nello storico gruppo rock degli Stormy Six. Quanto ha influito l’esperienza musicale nella sua poetica?
L’aspetto più importante è stata l’esperienza della voce. Cantare in pubblico ciò che si scrive significa esporsi – letteralmente, fisicamente – alle persone a cui ci si rivolge, rispondere delle proprie parole, “metterci la faccia”. La riflessione sulla voce è stata centrale anche per la mia esperienza poetica. Le poesie che ho cominciato a pubblicare negli anni Ottanta le pensavo non tanto come degli oggetti estetici, letterari, quanto come degli “atti di parola”. La voce è uno “strumento” molto particolare; più che usarla, noi siamo una voce, quella voce lì, e non possiamo essere altro. La mia scrittura è partita dalla consapevolezza di questo limite. Cercavo il verso dell’animale che sono.
Nella sua poesia è presente il tentativo di riconoscersi – e di descrivere – le problematiche dell’uomo di tutti i giorni. Non è un caso che una delle sue raccolte più significative si intitoli Tutti.
L’esperienza politica che ho fatto negli anni Settanta comportava una sorta di “censura” del soggetto individuale, dell’io. L’unico soggetto legittimo era un noi molto ideologico. Quando quel noi è tramontato, esitavo a rimettere in gioco il mio io, come avviene nella nostra tradizione lirica. Sentivo di essere uno, chiunque, di essere parte di quei tutti – appunto – che costituiscono la base della nostra idea di società, di razionalità. La mia scrittura è anche una riflessione sul rapporto tra individualità e comunità, che da sempre mi dà da pensare.
Quanto si ripercuote l’habitat milanese nelle sue poesie?
Nei miei libri Milano non viene mai nominata; non ci sono nomi di strade, di piazze. Eppure, direi che questa città è il movente più profondo di quello che scrivo. È dalla sua riscoperta, negli anni Ottanta, che è partita (ripartita) la mia esperienza poetica. Fotografavo le facciate, i muri ciechi, e intanto scrivevo. Cercavo di dire cosa muovevano in me quelle case, quei cavalcavia, quegli scavi.
Quali sono gli autori a cui si è ispirata maggiormente la sua opera?
Ce ne sono tanti. Nominerò i due a me più cari: Baudelaire e Kafka. Tra gli italiani, direi Montale (che ho letto fin da ragazzino) e Sbarbaro.
I suoi versi descrivono un paesaggio anonimo fatto di palazzi e tangenziali, di viali e capannoni industriali che è in parte riconducibile a certe atmosfere presenti negli Strumenti umani di Sereni, nel Disperso di Cucchi, nelle Somiglianze di De Angelis. Raboni a proposito della raccolta d’esordio di Cucchi aveva coniato il termine “espressionismo lombardo” che forse risulta più credibile rispetto a quello di “linea lombarda” che racchiude esperienze fin troppo eterogenee. Si tratta per lo più di generalizzazioni ma è chiaro che sussiste un vicendevole richiamo a tematiche comuni. Che ne pensa?
Con gli autori che ha nominato sento senz’altro delle affinità, pur nelle differenze. Milano è una città che “segna”, anche senza che uno se ne accorga.
Per anni lei ha lavorato, insieme a Buffoni e Pusterla, ai Quaderni italiani di Poesia contemporanea di Marcos y Marcos che raccolgono le voci più promettenti della giovane poesia italiana.
È stata (ed è ancora) un’esperienza impegnativa, faticosa, ma credo importante. Ammiro molto Buffoni per la sua generosissima apertura ai giovani, senza pregiudizi di poetica. È stato lui, anni fa, a coinvolgermi. Per me è sempre molto difficile giudicare il lavoro altrui. Cerco di farlo meglio che posso.
Cosa sta preparando attualmente?
Ho appena finito di scrivere un lungo racconto in versi, Il Conoscente, alcuni passaggi del quale sono stati pubblicati nell’Oscar Mondadori che raccoglie il mio lavoro dal 1986 al 2014. È un libro molto diverso da quelli che ho scritto finora. Al centro c’è un personaggio mellifluo e urtante, che riemerge dal mio passato e mi provoca, mi lusinga, mi irretisce, vorrebbe “curarmi”…
Può commentare la poesia inedita qui presentata?
Questa poesia non fa parte di un progetto, di una raccolta a venire. È un po’ “dispersa”, poverina. Non so che destino avrà. Da tempo, comunque, pensavo di scriverla. È la rievocazione di un momento che ricordo bene: avevo nove anni, stavo andando a scuola una mattina d’inverno, e nelle circostanze molto molto precise che riporto (cosa per me davvero insolita) ho sentito – di colpo, senza un motivo – qualcosa di enormemente più grande di me, di terribile e disperante. Nello stesso momento ho sentito anche che questa disperazione non era mia, era una condizione di tutti gli uomini. Per questo il soggetto, fin dall’inizio, è chiunque.
***
Nulla
(inedito)
Chiunque, nel sole freddo di una mattina
del millenovecentocinquantotto,
sulla strada da casa a scuola,
in via Paullo, davanti al concessionario
della Moto Gilera, ha sentito
in faccia l’aria del giorno.
In gola, e contro le ginocchia nude
tra i calzettoni e i pantaloni corti
ha sentito soffiare il saporaccio
del nostro Nulla,
del grande Dispiacere.
Niente da fare. Che al mondo non ci sia
nessun rimedio, era
talmente chiaro,
era talmente strano.
Ha aperto la cartella, ci ha messo dentro
la merenda – una veneziana
comprata dal lattaio – e poi via,
col passo del bravo scolaro.
Umberto Fiori