La voce del poeta: Vivian Lamarque
Un falsetto tutto suo
Toni leggeri ma temi controversi e spesso dolorosi. Favole e vita. Questa la cifra della poetessa che si annovera di diritto nella categoria degli «inconsolabili consolatori del mondo». Così, anche nella sua ultima raccolta “Madre d’inverno”…
Vivian Lamarque è una delle più apprezzate e conosciute autrici italiane, che con la sua opera è riuscita a conquistare una frangia di pubblico in genere refrattaria alla poesia. La sua lirica è immediata, diretta, non si esprime attraverso formule astratte o sibilline, ricorrendo spesso a uno stile semplice e a rime facili («m’incantò la rima fiore / amore, / la più antica difficile del mondo» suggeriva Saba) che riescono a catturare l’attenzione del lettore e a commuoverlo, in virtù di una rara adesione alle vicende dell’esistenza quotidiana, vissuta con animo fanciullesco e, al tempo stesso, disincantato. È come se la voce della poetessa si esprimesse con i toni leggeri del “falsetto” che adombrano appena le tematiche affrontate, non di rado controverse e dolorose.
La Lamarque, autrice anche di numerosi libri di favole, ha pubblicato le seguenti raccolte poetiche: Teresino (1981), Il signore d’oro (1986), Poesie dando del lei (1989), Il signore degli spaventati (1992), Una quieta polvere (1996). Nel 2002 è uscito l’Oscar Mondadori Poesie (1972-2002). La sua ultima raccolta, pubblicata nello “Specchio” mondadoriano e intitolata Madre d’inverno (144 pagine, 19 euro), racconta con toni svagati e, al tempo stesso, sofferti la vicenda della malattia della madre adottiva, la cui figura è spesso contrapposta a quella della madre biologica.
Il tema complesso e doloroso dell’abbandono da parte della sua madre naturale e della relativa adozione di una famiglia milanese permea gran parte di Madre d’inverno, anche se spesso risulta filtrato da una sapiente dose di ironia. Non pensa che i poeti si prendano a volte troppo sul serio?
Sì, me la pongo spesso questa domanda. Questa e mille altre, sono una fabbricante di domande, forse è un vizio congenito della categoria. Categoria poeti. Tra i segni di punteggiatura, il punto interrogativo è il preferito, cammina spesso anche nei miei versi. Sì, i poeti si prendono sul serio, certi un po’, certi molto, certi decisamente troppo. Non penso però che il metro per misurare questa scala sia quanto spazio occupi nei loro versi l’autobiografia. Quando io scrivo delle flebo di mia madre, o lei Di Palmo dell’Alzheimer di suo padre, la mia camera d’ospedale e la sua allargano le braccia per accogliere tanti altri degenti oltre ai nostri amati, per primi quelli del nostro Lettore, quello che a volte mi fa dono di un suo messaggio per scrivermi grazie Lamarque di aver trovato lei le parole per il mio di dolore. Idem per quanto riguarda il tema dell’adozione, della ricerca delle radici, pare non sia io l’unica del pianeta a essersi smarrita – e ritrovata – in questa segugità delle tracce. Cito sempre Ritsos: «i poeti sono gli inconsolabili consolatori del mondo». Non scrivo di massimi sistemi, ho scritto anche sul lavare i bicchieri o sul mescolare la minestra se no attacca, era il mio gatto Ignazio, non io, che in Poesie per un gatto ripetutamente si domandava ci sarà o non ci sarà questo aldilà?
Lei riesce ad affrontare temi impegnativi e dolorosi come quelli della malattia e della morte con levità, con grazia. Non a caso nei suoi testi ci sono molteplici richiami al modello di Wislawa Szymborska. Ce ne può parlare?
Sì, dicono che levità, grazia, ironia siano sempre state le cifre della mia poesia, tanto più quando accostate a temi dolorosi. Lo stesso dicono della Szymborska e in Madre d’inverno ci sono due poesie a lei dedicate, sento a tratti affinità con lei, ma maggiore con poeti dai versi più tragicamente segnati.
In una poesia del suo ultimo libro lei sostiene, parafrasando una celebre lirica di Patrizia Cavalli, che le poesie cambieranno il mondo, ma che lo faranno «come un nevicare lento lento lento». Lo pensa davvero o si tratta di una boutade?
Ma nella poesia cui lei allude sono presenti anche un “forse”, un “poco”, un “però”, di nuovo un altro “poco”, e soprattutto un “tra tanto / tanto di quel tempo”, diciamo pure anni luce, e c’e anche un “lento lento lento”. Se preferisce potrei aggiungere anche un Post Scriptum (altra mia predilezione come per i punti interrogativi) del genere “o forse no?”.
La sua ultima raccolta esce a distanza di vent’anni dalla precedente. Non ritiene che spesso i poeti tendano a pubblicare troppo, privilegiando la quantità alla qualità?
Dicono vent’anni, secondo i miei calcoli no. Scavalcano Poesie per un gatto (e anche Poesie di ghiaccio e Poesie della notte, perché opere per l’infanzia); e comunque l’Oscar non raccoglieva solo i libri precedenti, ma anche molte poesie nuove e il lungo poemetto L’albero. Comunque se non venti, parecchi anni, è vero, sono passati. Gli intervalli tra un libro e l’altro possono essere tante cose, creatività in riposo oppure vita che bussa con doveri primari che esigono la precedenza assoluta. E comunque un lungo intervallo può partorire anche un brutto libro e uno breve anche un capolavoro. Chi lo sa…
Lei è anche autrice di fiabe. Questa sua attività è correlata con le vicissitudini legate alla sua infanzia?
È un’ulteriore voce mia. Che si è affacciata decenni dopo quella poetica, in un momento difficile per me e la mia bambina, non era neonata, frequentava già le elementari, eppure la prima raccolta furono Ninne Nanne che, come ricordava Garcìa Lorca che raccolse quelle antiche della tradizione spagnola, sono nate per ninnare non solo i bambini ma anche le mamme stesse, alla fine di giornate estenuanti nei campi.
Alcuni autori fondamentali del Novecento come Sereni, Raboni e Giudici si sono confrontati con profitto con la sua opera. Qual è la figura che ricorda con più coinvolgimento?
Sereni, che non avevo mai incontrato, mi sorprese moltissimo (e ancor più sorprese i miei colleghi poeti!) con una del tutto inattesa bella recensione di Teresino (che aveva appena ottenuto il Viareggio Opera Prima). Iniziava con le parole «non conosco Vivian Lamarque e questo è già un bel fatto». Giudici fece la prefazione a Il signore degli spaventati, amavo molto la sua poesia, personalmente ebbi occasione di incrociarlo solo a qualche lettura. Raboni fu il mio Scopritore con la S maiuscola. Gli mostrò le mie poesie Lucio Lamarque, fratello di mio marito Paolo Lamarque. Lucio lavorava in Garzanti, Raboni era il suo “capo”, gliele fece leggere, a mia insaputa, e Raboni le fece subito uscire su Paragone e su Nuovi Argomenti accompagnate da parole che ancora oggi mi commuovono e incoraggiano. Ne avevo molta soggezione (veramente di tutti i poeti avevo soggezione e di alcuni ancora oggi), ebbi l’intimidito piacere di ospitarlo qualche giorno a casa mia con Patrizia Valduga appena giunta a Milano, era l’inizio della loro storia d’amore. Leggo spesso, ultimamente, le poesie di Raboni, e ogni volta che le apro è un nuovo scoprire, uno scendere sempre più nel profondo.
Cosa sta preparando attualmente?
Sto scrivendo, a settant’anni, poesie di quasi-amore.
Può commentare la poesia qui presentata?
Il titolo originale di questa poesia era 1980. Valentino a piazza di Siena. La scrissi in occasione del Festival romano di quell’anno. Valentino ogni tanto si lamentava che non l’avessi pubblicata. Inedita in libro, è però uscita su La Lettura del Corriere della Sera del 17 luglio scorso per ricordare la morte di Zeichen avvenuta il 5 luglio. Come omaggio postumo ho modificato gli ultimi 4 versi. Anche il verso tra virgolette, come ovviamente il celebre incipit, è di Pascoli.
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per Valentino
O Valentino vestito di bianco
bianco poeta quel giorno sul palco
con i calzoni che non toccavano i piedi
con i piedi che non toccavano il palco
accanto a Cordelli vestito di nero
com’eri magro nell’abito bianco.
Pacini dal palco nominava le stelle
invece i poeti li nominava Franco.
Solo i pini romani forse lo sanno
dove in punta di sandali ora sei andato,
“oltre il beccare il cantare l’amare”
oltre la tua Fiume, oltre anche il mare?
Vivian Lamarque