Raccontare il corpo/4
Statti zitta
«Avevo vent'anni tondi tondi allora, pensai. Questo diario con lucchetto ha quasi la mia età. Feci mentalmente il calcolo. La nonna aveva scritto questo diario poco più che sessantenne»
La credenza fu portata qui dopo la morte della nonna.
Una rimessa degli attrezzi poco distante dalla casa principale sommersa dalla vegetazione e dai roseti incolti. Erano anni che non ci tornavo.
Abbiamo deciso di vendere, portiamo via le cose più importanti.
Tra le lenzuola ingiallite, un vecchio diario con un esile lucchetto.
Lo portai al petto e lo annusai, lo tenni stretto tra le mani per diversi minuti. Nessuno aveva potuto mai avvicinarsi a quel cassetto, ci avevano sorpreso a rovistarlo anche di notte. Una strana sensazione mi attraverso’ il corpo. Mi guardai intorno. Finalmente, esclamai.
La calligrafia armonica nel segno, barocca, era inconfondibile. Un sospiro profondo mi si spezzò in gola.
Gli occhi fissi correvano su quelle righe e non riuscivo più a staccarli.
«25 novembre 1999», la data.
Avevo vent’anni tondi tondi allora, pensai. Questo diario con lucchetto ha quasi la mia età.
Feci mentalmente il calcolo. La nonna aveva scritto questo diario poco più che sessantenne.
Continuai a leggere … «Quello che sto per scrivere è un qualcosa che mi porto dentro da una vita. La data di oggi mi suggerisce che è arrivato il momento di rivelare questo segreto».
Un segreto! Mia nonna?
Dopo brevissimi cenni alle attività che l’avevano tenuta impegnata in quel periodo e un affettuoso pensiero rivolto al caro nonno scomparso, continuava:
«Non ricordo con esattezza se quel giorno era il 25 novembre. Era un giorno non caldissimo di fine inverno.
Come dicevo non ricordo se faceva caldo o freddo. Non ricordo neanche cosa indossavo. Gli sforzi nel portare la mia mente a quei giorni non mi aiutarono molto. Il nulla di quel tempo era in me. Difficile dire i pantaloni, forse la gonna. Sì. Indossavo la gonna scozzese.
Era il 25 novembre di pomeriggio. Avevo all’incirca otto o nove anni allora.
I giochi con gli altri bambini. Le campane disegnate in ogni angolo del paese con mucchietti di sassolini a fianco, nascondino, le bambole di pezza e poi i compiti e le faccende domestiche per noi bambine.
I maschi con i maschi, le femmine con le femmine.
Ricordo gli odori, i sapori, i colori di quelle giornate, ma non ricordo come quel giorno, io sola, ero finita in quella casa attaccata alla nostra, su una stretta viuzza laterale. Una delle tante che a raggiera si diramano dalla grande piazza centrale. Una vietta stretta che scende con gradoni sempre più larghi e lunghi su un’altra piccola piazza polverosa, vuota, meta delle nostre scorribande. Tanti ingressi con le chiavi sulle porte. Ballatoi che immettevano subito nelle cucine. Archi in pietra grigia con ripide scalinate disconnesse dello stesso colore che portavano a tanti altre abitazioni all’interno di freschi cortili. Famiglie amiche, di zii e zie, commare e compari. In quella casa, che conoscevo bene, andavo con mia sorella e con tanti altri bambini del posto. Come ci piaceva stare con la “zia” Elisabetta. Non era nostra zia ma la chiamavamo tutti così. I suoi abiti in tulle e merletti. Nessuna donna del paese ne aveva di così belli, neanche quelli gelosamente custoditi per i giorni di festa. Le tante collane dalle pietre colorate ci arrivavano all’ombelico. Le scarpe con i tacchi che strusciavamo per tutta casa e poi i rossetti, quello rosa arancio, pastoso, dal sapore di viola e papavero lo mettevo sempre di nascosto.
Quel giorno non ricordo di aver messo il rossetto, anzi ricordo bene di non averlo fatto. Allora perché ero salita al piano superiore per quelle fredde e buie scale!”
Appoggiai il diario a terra, respirai, mi rifiutavo di andare avanti ma curiosità guidava la mia mente e i miei occhi tornarono fissi su quelle righe sempre più fitte.
«Elisabetta e il marito erano tornati dalla Polonia. Si erano conosciuti durante la guerra, non avevano avuto figli. Lei era la sorella della “commara” di battesimo di Elvira, la mia sorellina. La famiglia dove i nostri genitori ci lasciavano per andare a lavoro. Ci dovevano dare solo uno sguardo. Piccoli ma autonomi, la maggior parte del tempo lo trascorrevamo fuori casa. Si tornava solo per la merenda. Il pane con la ventricina bianca o con l’olio, la mentuccia appena tritata e un pezzettino d’aglio strusciato sopra.
Eravamo una grande famiglia, anche loro erano considerati di casa.
Era il 25 novembre. La stufa accesa, il brontolio del bollitore dell’acqua e la puzza del fumo li sento ancora. In cucina quel giorno non sono mai andata, ero rimasta in quella specie di anticamera illuminata da un grande lucernario appannato, oltre il cielo grigio.
Elisabetta trascorreva il suo tempo facendo l’uncinetto. Spesso si addormentava sulla poltrona con i ferri in mano. Anche noi bambine del paese eravamo diventate brave a fare l’uncinetto e a ricamare, ore e ore ad imparare, anche lì in quell’anticamera, su quel divano, sommerse da montagne di pezzi di stoffa colorata e cesti pieni di gomitoli e nastrini a fare vestiti alle bambole. Ogni tanto zia Elisabetta chiamava il marito. Cosa gli chiedesse mentre attizzava con il soffietto il fuoco e poi chiudeva con forza lo sportello della stufa, non lo ricordo. So solo che non venne mai di là. Era consenziente?
Il fruscio dei vestiti e della copertina in seta dove cercavo di scivolare per scappare via. Il respiro sempre più vicino al mio volto e sempre più forte si amplificarono talmente tanto che non riuscii a sentire più niente. Una voce stridula, lontana, sempre più lontana, un sibilo.
Il suo sguardo vorace, torbido su di me, mi ripeteva a bassa voce, quasi in bocca, di stare zitta.
In continuazione: zitta! La sua grande mano mi tappò la bocca. Facevo fatica a respirare, sentivo il sangue pulsarmi alle tempie. Zitta! Statti zitta, devi stare zitta, mi ripeteva.
Ero piccola, su quel divano quel signore apparentemente buono, quel gigante venuto da un altro paese, mi penetrò con le sue grosse dita. Zitta! Mi allargava le gambe, spostava le mutande e tornava dentro. Così per diverse volte, ed io seduta non respiravo più.
Ancora oggi faccio fatica a capire.
Come e quando andai via non lo ricordo. Le sensazioni di quando ridiscesi le scale con la testa sempre girata in dietro, sì, quelle le ricordo. Paura. Tanta paura. Tremavo. Una parte del mio corpo, che fino a quel momento non era esistita, mi si presentò nella sua crudezza. Corsi in bagno e fu quella la prima volta in cui realmente mi guardai. Quello che era successo mi cambiò da subito.
Non so se ho mai pianto per questa cosa, non lo ricordo. Più di una volta il mostro cercò di attirarmi nuovamente in casa. Mi diceva cose sconce e mi minacciava. Gli sputai.
Sono passati tantissimi anni da allora. Come potevo volere una cosa che non conoscevo? Provai piacere e poi tanta, e tanta paura ma mai mai con nessuno proferii parola. Mai. Quello che sono riuscita a ricordare di quel giorno è poco, quasi niente, come se tutto fosse stato volutamente cancellato, mai vissuto. Sono marchiata dentro, nella mente, nel mio essere più profondo. La cosa più triste, a distanza di moltissimi anni, fu la scoperta che anche mia sorella, la più piccola, aveva subito la mia stessa violenza».
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Monica Brandiferri, laureata in Filosofia, insegnante precaria, impegnata in politica, è stata consigliera comunale assessora e presidente di Comunità Montana. Ha svolto il ruolo di mediatrice interculturale. Attualmente è Presidente della Commissione per le Pari Opportunità della Provincia di Teramo.