Oltre le Olimpiadi
Shakespeare e Garozzo
Dietro i successi di Garozzo e della scherma italiana ci sono secoli di storie e avventure. Che affondano le radici fino a Shakespeare, amico di un certo Saviolo nella Londra a cavallo tra Cinquecento e Seicento...
A ogni Olimpiade, immancabilmente, ci si ricorda di alcuni sport nobili e “poveri” che però danno lustro, storia e medaglie al nostro Paese. Uno di questi, ovviamente, è la scherma. Qui, le radici della supremazia italiana sono profonde: corrono indietro fino al Cinquecento, fino a incrociare Shakespeare. La strada per arrivarci è tortuosa ma bisogna percorrerla tutta. E partire ancora una volta da Otello.
«Signor Cassio, te, che stimano essere il solo uomo abile nelle armi; te, che ti permetti il lusso di traversare i mari per venire ad insegnare a noi, tuoi maestri; te, altro non sei che un vigliacco! Esci dalla tua casa, se l’osi; discendi a combattere meco e ad arrischiare la tua vita, con me!». Sono le parole probabilmente usate da Roderigo, lo sciocco veneziano innamorato di Desdemona, per provocare dietro le quinte Michele Cassio, luogotenente di Otello, su suggerimento di Iago. Siamo a Cipro, nel pieno del secondo atto di Otello. La faccenda, in Shakespeare, va a finire come si sa: dopo l’insolenza di Roderigo, Cassio lo insegue («Questa canaglia vuole insegnare a me il regolamento di disciplina. Ti faccio paglia da fiaschi. Ti rompo la testa» fa dire Shakespeare al luogotenente di Otello) e lo colpisce. Interviene Montano, il governatore di Cipro, e finisce in duello. Scandalo! Che il buon Cassio sia ubriaco? Sì, è proprio un ubriacone attaccabrighe: così Otello lo degrada e Iago ha strada libera per insufflare il morbo della gelosia nell’orecchio del Moro. Poi fazzoletti, morti ammazzati, confessioni, Venezia salvata e sipario. Applausi.
La battuta riportata sopra non è nel copione, ma il pubblico londinese doveva facilmente aggiungerla di suo, perché a Londra, nel 1604 (l’anno della prima rappresentazione dell’Otello), quello («vigliacco che ha attraversato i mari per venire a farci la lezione») era un epiteto molto famoso: l’aveva riportato un certo George Silver, chiacchierato maestro di scherma, nel suo libro Paradoxe of defence, ristampato poi più volte fino al 1610. La battuta offensiva si riferiva a un evento di cui lo stesso Silver era stato mandante e testimone. Questo è il fatto: un energumeno inglese, tal Austen Bagger, aveva provocato per strada un maestro d’armi italiano, Rocco Bonetti, d’origine barese. L’aggressore contava di stanare solitario l’italiano e di ammazzarlo come un verme con l’aiuto del suo mandante (George Silver) e un altro tipaccio prezzolato. Salvo che a difesa del Bonetti erano usciti fuori dal buio altri due schermidori italiani. Poco dopo i tre inglesi, mezzi morti dalla paura, e dalle ferite erano dovuti scappare di corsa.
Quel Bagger lì, poi (diciamo, l’equivalente del Roderigo shakespeariano), era morto dopo qualche settimana per le ferite che gli si erano infettate. Perché Silver si sia vantato di un’avventura così fallimentare è un mistero; eppure lo fece. E scrisse anche il nome degli altri due italiani: il primo era Gerolamo Bonetti, figlio del pugliese, il secondo era Vincentio Saviolo, amico di William Shakespeare.
A cavallo tra il Cinquecento e il Seicento, quando Shakespeare e i suoi Lord Chamberlain’s Men erano già fra i teatranti di maggior successo, a Londra sbocciò la moda del teatro dei ragazzi: erano compagnie di adolescenti che, guidati sapientemente da un adulto, interpretavano storie fantasiose e moraleggianti, per lo più quelle contro la cui attitudine agli eccessi interpretativi si scaglia Amleto nella celebre scena in cui impartisce la sua lezione di teatro agli attori appena giunti a corte. Questi ragazzini, rispetto ai professionisti, erano meglio tollerati dall’aristocrazia (sia pure sempre solo tollerati) e attraevano pubblico meno popolare rispetto a quello dei colleghi maggiorenni. Inoltre – e questa era la vera chiave di volta del loro successo – recitavano dentro teatri chiusi, di muratura: sale abbastanza capienti da ospitare platea e palcoscenico. In quegli ultimi anni del Cinquecento l’amministratore della compagnia di Shakespeare era James Burbage: un ex-falegname e padre previdente di Richard Burbage, primattore della compagnia di Shakespeare. Burbage senior era un avveduto affarista: con largo anticipo previde che il teatro si sarebbe sviluppato al chiuso, sulla spinta del successo del ragazzini e dunque, in attesa di costruire quello che sarebbe stato il Globe, mise gli occhi su una sala di Blackfriars che, adeguatamente ristrutturata, avrebbe potuto ospitare i Lord Chamberlain’s Men.
Lì, a Blackfriars, la sala che Burbage comprò era da anni la sede di una delle più prestigiose scuole di scherma di Londra: la dirigeva proprio quel Rocco Bonetti insolentito da Bagger-Roderigo; l’aveva inaugurata nel 1576. Nel 1595, però, Bonetti improvvisamente morì e la grande sala venne lasciata libera. Subito Burbage pensò di affittarla per le rappresentazioni degli attori-bambini: bastarono modesti lavori di ristrutturazione e le prime recite ebbero luogo. I vicini di casa, naturalmente, tolleravano gli attori purché se ne stessero lontani, ma questi ragazzini se ne stavano troppo vicini: sicché i buoni borghesi si appellarono alle autorità della città dicendo che quelle recite oltre a provocare un deprezzamento degli immobili della zona causavano una confusione eccessiva per chiunque avesse voluto vivere in pace. Il teatro venne chiuso, i ragazzini sloggiati e Burbage rimase con il suo investimento infruttuoso sulle spalle. Ed ebbe un’altra delle sue trovate di genio: si ricordò di quell’allievo di Bonetti che, amante del teatro, s’era fatto amico di suo figlio e di Shakespeare suggerendo loro qualche idea per la realizzazione scenica dei duelli. Insomma, decise di tornare alle origini, ossia di ospitare a Blackfriars una sala da scherma: quanto al locatario, non c’erano dubbi. Morto Bonetti – siamo all’inizio del 1597 – c’era un solo candidato naturale: Vincentio Saviolo. Un maestro d’armi che furoreggiava su tutti, che insegnava la scherma a Corte e che già nel 1595 aveva pubblicato un manuale di grandissimo successo: His practice in two books. The first intreating of the use of the Rapier and Dagger. The Second, of Honor and honorable Quarrels, vero e proprio classico del genere.
Saviolo riaprì la scuola di Blackfriars. L’arredo del grande locale era piuttosto eccentrico, per la Londra d’epoca. Gli stemmi dei Pari suoi allievi alle pareti, accanto a vecchie armi lucidate di continuo; poi antiche armature medioevali italiane sparse qui e là e «perché nulla mancasse ai frequentatori, in mezzo alla sala eravi una grande tavola, fatta venire, dall’Italia, tutta scolpita e coperta da un grande e ricco tappeto a frange d’oro, con bei calamai guarniti di velluto cremisi, e penne e ceralacca e polverino e carta, ricchissimamente dorata ai margini, blasonata, onde, agli allievi fosse possibile scrivere le loro lettere e mandare i servi in livrea a fare le commissioni»: è sempre l’invidioso Silver a raccontarlo. Le lezioni costavano dai 20 alle 100 sterline al mese: una bella cifra, ma d’altra parte Saviolo a corte era trattato come un principe! Shakespeare e il giovane Burbage (il padre era morto alla fine del 1597) divennero abituali frequentatori della Sala d’Armi di Saviolo. Non che volessero prepararsi a chissà quale duello: Richard Burbage cominciava a pensare a come trasformare quella sala in un tempio teatrale e Shakespeare, di conseguenza, prendeva a progettare intrecci romanzeschi per quello spazio.
Infatti qualche tempo più tardi, dopo aver steso per via altri schermidori invidiosi peggio del Silver, Saviolo rimase ferito in un duello e cominciò a pensare che forse la sua vita londinese fosse diventata troppo faticosa: d’accordo con Burbage lasciò la sala di Blackfriars al suo destino teatrale (i vicini ormai avevano accettato l’idea) e se ne andò a Parigi dove morì non si sa quando e non si sa dove. Solo, si deve dedurre che dalla sua stretta amicizia con Shakespeare e Burbage tra il 1597 e il 1603 siano nati tutti i duelli più famosi del teatro inglese di quegli anni: la lama avvelenata che uccide Amleto dev’essere stata un suo suggerimento di sicuro, così come quel duellaccio tra Roderigo e Cassio veniva dritto dritto dalla sua esperienza.
La sua tecnica, dispiegata con sapienza e ogni squisitezza retorica nei due volumi della His practice, ormai era riconosciuta da tutti come il frutto secolare del coraggio italiano; eredità diretta prima della sapienza guerresca romana e poi della sfrontatezza dei Comuni medievali: Saviolo faceva indossare ai suoi allievi scarpe piombate perché non arretrassero tanto facilmente di fronte agli attacchi degli avversari. E invece il suo metodo Saviolo l’aveva inventato di sana pianta: altro che eredità della tradizione romana! Chissà se l’ammise mai con Shakespeare. Ma è proprio da quella scuola che discendono, ora, i secolari ori olimpici della scherma italiana. Fino a quello di ieri, nel fioretto, di Daniele Garozzo.