Attilio del Giudice
Italia, primo agosto/2

Rosetta e i peperoni

Il traffico, le folle vacanziere del primo agosto nei supermercati con gli abbigliamenti spericolati e il vociare sguaiato non corrispondono alla mia idea di democrazia e alla mia sensibilità senile. Resto in casa

Oggi è il primo agosto del 2016. Di questo, almeno, sono sicuro. Sono solo, Ingrid, la mia compagna, è a Trieste dal padre. Sono sveglio dalle cinque. I vecchi, si sa, dormono poco, forse per rubare alla vita il più possibile e di questo non mi lamento, anche perché nei miei sogni c’è sempre qualcosa di cui debba sentirmi colpevole e di cui debba vergognarmi. Talvolta mi sveglio e sono felice di essermi liberato di una condanna. Ho studiato, tanti anni fa, Psicologia del Profondo, ma di questa strada regia dell’inconscio (L’interpretazione dei Sogni) non ci ho mai capito granché.

Ho già fatto le mie cose e le tre pittate quotidiane.

Forse, su questo fatto delle pittate dovrei fare chiarezza: la parola in italiano non esiste (esiste pittare, non pittata) è una locuzione dialettale. Mi piacque adottarla  nel 2008 per un mio blog, che ancora esiste: “Le Pittate d’ogni giorno”. Forte della mia lunga esperienza di pittore volevo servirmi di un semplice programma, il paint e del mause per esprimermi sul web. L’ipotesi era quella di trasmettere con immagini qualche minuscola idea, qualche piccolo sentimento o risentimento, qualche piccola provocazione. Progettavo di farlo, svariando stilisticamente, senza alcun vincolo di committenza e libero anche da cristallizzazioni estetiche precostituite. Le pubblico anche su Facebook e mi sembra, in tal modo, di corrispondere a una nostra istanza di avanguardia degli anni ‘70, quando volevamo sottrarre l’arte agli spazi deputati, mercantili e borghesi, ed esporre le nostre cose all’aperto, nelle strade. Ora mi immagino che Facebook sia una specie di piazza e io mi rivolgo a tutti anche a chi non è mai entrato in un museo o in una galleria. Ma non la voglio fare troppo lunga. Insomma, le tre pittate, stamattina, le ho fatte.

Si sono fatte le 11. Abito a Santa Marinella, una cittadina di mare, il mare lo vedo dal mio terrazzo. È una consolazione. C’è poca roba nel frigorifero, ma non mi va di scendere a fare la spesa. Il traffico, le folle vacanziere del primo agosto nei supermercati con gli abbigliamenti spericolati e il vociare sguaiato non corrispondono alla mia idea di democrazia e alla mia sensibilità senile. Resto in casa. Chiamo a Roma mia sorella.

Mia sorella è più vecchia di me, ma è “scetatissima”. Ha subìto una maculopatia, irreversibile, che le permette di vedere solo ombre e, naturalmente, non può leggere. L’assenza della lettura l’ha addolorata profondamente. Quando la chiamo al telefono mi chiede di leggerle un mio racconto. Lo faccio volentieri, ma non è un’impresa facile, perché lei mi mette un sacco di paletti.

Innanzitutto i racconti devono essere brevi, «Se no, perdo il filo», dice.

Non devono assolutamente parlare di terrorismo, di attentati e di crimini efferati. Guai a toccare i temi ricorrenti della cronaca di questi giorni «Mi vorresti rattristare con questa deriva bestiale? Devi raccontare una cosa allegra, hai capito?».

«Rosetta (è il suo nome), ma non le tengo le cose allegre che siano anche brevi».
«Ma allora, che scrittore sei?».
«Senti, oggi ti racconto una cosa sulla Sinistra, che ne dici?».
«Renzi?».
«No, Renzi no. Sulla Sinistra»
«Forza, sentiamo!»

«Era vecchio, aveva difficoltà a camminare il professore, ma non rinunciava al piacere di farsi due passi sotto casa dopo pranzo. Quando lo vedevo per strada lo salutavo con rispetto. Lui, alle volte rispondeva, altre volte mi ignorava completamente, chissà quali pensieri gli attraversavano le mente. Era uno che conosceva Marx, Gramsci e aveva amato l’epopea della lunga marcia di Mao.  Avevo frequentato, tanti anni prima, un suo corso su Amedeo Bordiga, mi aveva colpito la sua chiarezza e constatavo il fascino intellettuale che esercitava su di noi, ragazzi e ragazze. Ero tentato di parlargli, di chiedere cosa pensasse della situazione politica che stavamo vivendo, perché la Sinistra non perveniva a un’unità strategica, perché non riusciva ad esprimere un leader veramente carismatico, che fosse in grado di compattare le varie anime del partito e fosse coerente con le istanze ideali e culturali, eccetera, eccetera, ma quando, finalmente, mi decisi di superare la timidezza, non lo vidi più».

«È finito?».
«Sì, ti è piaciuto?».
«No! Per niente. Ma è una metafora?»
«Forse sì».
«Non la volete finire con ‘ste metafore! Che ti cucini oggi?».
«Peperoni».
«Peperoni? E li digerisci?».
«Sì, sì!».
«E come li fai?».
«Prima li spello, poi al forno, con olive, aglio, capperi, acciughe sott’olio e pane grattugiato».
«Atti’, dovresti occuparti di cucina, invece di parlare di questa benedetta sinistra!».

Ho dovuto constatare che in casa  non c’erano le olive di Gaeta, che sono l’ideale per i peperoni al forno e pure i capperi erano finiti. Praticamente, il piatto che avevo descritto con successo a mia sorella, è venuto del tutto insignificante.

Mi sono visto, mentre mangiavo, due telegiornali (io mi aggrappo molto alla cronaca quotidiana per non cadere nel vortice dei ricordi, che possono prenderti alla gola a tradimento). Non sono mancati morti e feriti, ma in un paese lontano. È inaccettabile che quelli dei paesi lontani ci facciano pochissimo effetto e possiamo continuare a mangiare il primo agosto anche questa schifezza di peperoni. È moralmente inaccettabile, ma è un dato di fatto.

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