Il fantasma di una metropoli
Napoli è un film
Per chi è stato lontano dalla città, il ritorno a Napoli è diventato un atto doloroso: non è più un inferno di vita e contraddizioni ma un set, una Gomorra perpetua dove finzione e realtà luccicano allo stesso modo
Dopo aver a lungo esplorato il Portogallo, per un breve intervallo di tempo mi imbatto di nuovo in Napoli. È per la precisione la Napoli delle periferie, con la quale conservo ancora intensi contatti per ragioni di lavoro. Ora, Napoli può essere descritta in molti modi, tra i quali quello di uno sguardo che si concentra su scintillanti e prestigiosi eventi e luoghi della cultura (magari anche di raffinata avanguardia). Ma io resto convinto che colui che ama per davvero questa città e terra ne descrive il volto oscuro e non quello luminoso. Ed il tutto parte sempre dall’esperienza di nuovo inizio che tutti noi napoletani conosciamo molto bene: ogni volta che ritorni Napoli ti afferra alla gola. E così, vendicativa com’è, ti strapazza rudemente. Decisa a farti pentire di esserti lasciato sedurre dalla così balzana idea di poterne giudicare la natura (condannandola) attraverso la bellezza e grandezza di altre terre. Lei lo fa ne modo più sozzamente brutale che si possa immaginare, e cioè strofinandoti in faccia quelle sue viscere maleodoranti che, nella sua folle presunzione di bellezza, sono una sola cosa con quei genitali da vecchia e laida Sirena.
Assolutamente convinta di essere ancora una bellissima Sirena (anzi la più bella al mondo!), Napoli esige dai suoi figli la fedeltà assoluta. Fedeltà che si manifesta proprio nell’adesione indiscussa al dogma del valore di questa terra così come essa è, e basta. Senza se e ma, e soprattutto senza paragoni. Nulla infatti può e deve reggere al suo confronto.
E così l’esperienza del nuovo inizio comporta quasi sempre il contatto con un simbolo estremamente concentrato di ciò che Napoli è, e soprattutto pretende a muso duro di essere. Proprio per questo a nulla vale soffermarsi sulle immagini patinate di questa terra. Esse possono essere del tutto reali, ma saranno sempre solo di vertice. E precisamente in senso gaussiano. Dunque esprimeranno per definizione solo un’infinitesima parte della natura di questa terra. Non esprimeranno però affatto la piena e reale estensione dei fenomeni che la caratterizzano. Ebbene, questa capacità è invece del tutto alla portata dei simboli. Sempre concentrazione del Tutto. Simboli nei quali, se abbiamo gli occhi davvero aperti, possiamo imbatterci ad ogni angolo di strada.
Ebbene, a me di simboli, non appena messo piede di nuovo qui, ne sono toccati addirittura due.
Il primo è quello costituito dall’immagine del moderno giovane napoletano. Almeno quello di periferia oppure dei quartieri difficili della città. Il paradigma al quale tale immagine si ispira è evidente a prima vista: – è il moderno boss camorristico alla Genny Savastano (come immagine scenica, una vera faccia da porco, e senza offesa per l’attore). Dunque, complessione fisica e colori allusivamente ariani, rasatura alla moicano con regolare punta nucale, andatura spavalda, travolgente e scimmiesca (nessuno mi ferma a me!), con omero intraruotato (palme che guardano all’indietro) e coxa anteversa (piedi a papera), pantaloni arrolati al ginocchio da pescatore (con maliziose citazioni capresi), scarpe nere rigorosamente Nike. A tutto ciò, in ossequio alla storia della cronaca TG, si aggiunga una folta barba da fondamentalista islamico. Gli ingredienti ci sono tutti. Per cosa? Per incutere paura! Questo ragazzo però non sembra affatto un camorrista, anzi molto probabilmente non lo è affatto. La sua spavalderia è dunque solo il segno del fatto che il cosiddetto «orgoglio partenopeo» (tipico delle periferie!) si esprime oggi proprio nell’adesione al paradigma Savastano. Questo, quindi, il principale risultato della complessiva operazione culturale «Gomorra». Cos’altro si poteva sperare da un intervento che, per censurare e correggere, svela senza ritegno, e soprattutto lo fa di fatto con un compiacimento estetico che non può non essere anche complicità? Cosa ci si poteva attendere se, per convertire alla Giustizia, non si propone come alimento la giustizia stessa, ma invece si mette a nudo e si espone l’ingiustizia? E peraltro fatta addirittura spettacolo? Cos’altro, se non l’emulazione, ci si aspettava dal comune spettatore della serie Gomorra; ancor più se testimone di fatto (per residenza storica) dei relativi fatti di cronaca? Siamo insomma ancora una volta alla dimensione dell’effettiva estensione dei fenomeni, ossia al corposo ventre della curva gaussiana. Non ai suoi così evanescenti e sottili estremi. È infatti del ventre (il famoso ventre di Napoli!) che bisogna preoccuparsi. Non degli evanescenti quanto insignificanti aloni che lo circondano! E quaggiù questi aloni sono due: 1) il mondo edulcorato e sterilizzato della cosiddetta Cultura (che raccoglie di tutto, dai più raffinati intellettuali a coloro che erigono la loro fama proprio sulla descrizione senza passione del brutto e del deforme); 2) il non meno edulcorato quanto pochissimo responsabile e produttivo «bel mondo» napoletano. Il cui impegno principale è mostrare al mondo che Napoli sarebbe solo e soltanto la ristretta fascia costiera che va da Posillipo fino al Monte Echia incluso; risalendo poi (se proprio si vuole) le pendici della collina del Vomero per disseminarsi intorno al cocuzzolo di San Martino. E basta! Dio, per carità, ci liberi da qualunque indebita estensione oltre questi sacri confini. Tutto il resto infatti, per l’amor di Dio, non è Napoli. Ma è invece quello che da sempre si tende a definire come il regno dei cosiddetti «cafoni». Categoria che conosce poi una progressiva gradazione, a seconda della distanza radiale del luogo nell’emiciclo il cui centro sarebbe la (esclusivamente) costiera ed elegante «vera Napoli». Ovvero quella che La Capria definiva come la «città-cartolina».
Ebbene l’irresponsabilità improduttiva di quello strato sociale (con accluso ristrettissimo agglomerato urbano) – che a Napoli ama molto definirsi come «la classe dirigente» – consiste proprio nella convinzione che regge questa così insensata e stupida vanagloria. Consiste proprio in questo l’irresponsabilità improduttiva della dorata classe dirigente di qui – e cioè nella presunzione che una città così infinitamente suddivisa possa poi per davvero costituire un corpo vivo e funzionante (come se ognuna delle membra di un corpo potesse pretendere di rappresentare integralmente e da sola il tutto organico). Perché è proprio questo sdegnoso isolamento, respingente, rifiutante ed indifferente – in una cultura che blatera ed edulcora ma non ama per davvero (in quanto non soffre e conseguentemente non odia), ed in un coacervo persistentemente borbonico-ispanico-germanico di censo e sangue che celebra imperterrito i suoi vuoti riti ossessivi (l’immagine «Capri» ne è tuttora il centro simbolico!) – a permettere che intanto la malapianta germogli e prosperi indisturbata. Senza comprendere che però questa malapianta è un cancro che tutto divora, alimentando così solo sé stesso e quindi trasformando ogni cosa solo in sé stesso.
E dunque è proprio su questa così folle ed insensata base che può sussistere ed operare quel secondo simbolo nel quale mi è stato dato di imbattermi (nel mio ritorno), e cioè la magione stessa dei Savastano. Senza averlo voluto, senza nemmeno saperlo, e per circostanze che non menzionerò – insieme alle relative identità e luoghi (in quanto investono la privacy degli altri più ancora che la mia) –, mi è stato infatti concesso dal destino di entrare fisicamente in questa magione-tipo. Il sancta sanctorum di ciò che oggi a Napoli è il Male stesso nella sua schiacciante prevalenza. E quindi è stato come fare ingresso proprio sul set di Gomorra. La maestosità ricercata e lo sfarzo sopra le righe della magione ne erano l’immagine evidente. E lo stesso per le presenze. Ho tardato a capire dove mi trovassi. Ma, quando ho finalmente iniziato a capire, allora una terribile domanda non mi ha più abbandonato durante tutto il mio breve soggiorno in quel luogo: – «Perché? Com’è possibile?». Come è possibile che di fatto ormai non vi sia altro che il Male? Come è possibile che la terra che io amo visceralmente, la terra alla quale mi sento debitore per esservi nato e cresciuto, la terra la cui antica bellezza e grandezza impregna costantemente l’intera mia anima, com’è possibile che essa sia oggi espressa solo e soltanto da simboli come questi? Perché il resto, almeno in termini quantitativi, non conta davvero nulla.
Dove sono finiti il mondo e la terra, la Napoli, che io conoscevo quando tutto questo ancora non esisteva? Dov’è finito quel mondo, quella terra, in cui tutto questo era solo secondario e marginale? Come abbiamo potuto, tutti quanti insieme, commettere un crimine così orrendo?